Il Regio di Torino commemora la Shoah
Qualcuno potrebbe anche vedervi un filo conduttore. Come in una sorta di dittico, in cui il primo si spiega alla luce del secondo e viceversa, i due concerti eseguiti nel gennaio del 2023 al Teatro Regio di Torino si compenetrano e si completano, l'uno investendo l'altro di un senso nuovo, alternativo rispetto al considerarli in sé. La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, l'8 e il 9 del mese, sotto la direzione di Andrea Battistoni, si potrebbe vedere come un epicedio per le vittime della Shoah, la cui vera commemorazione avviene nel concerto del 27, di cui qui si dà conto – se poi pensiamo che il 27 si ricorda anche la morte dello stesso Verdi, si scorge un significato in più. I melomani smaniano al doppio appuntamento del 27, triste e felice come le maschere del teatro, la morte di Verdi nel 1901 e la nascita di Mozart nel 1756 (e di Édouard Lalo nel 1823…). Giorno della memoria, quindi, per più di un motivo, chiaramente nessuno paragonabile per importanza a quello che ha fatto istituire la ricorrenza nel 2000 (legge 20 luglio, nº211).
Sotto la direzione di Riccardo Frizza, l'Orchestra del Teatro Regio di Torino offre al pubblico un programma variegato, che peraltro inerisce solo tangenzialmente al tema, ma che nel complesso dispiega un valido ventaglio di ascolti ai neofiti che avrebbe probabilmente richiamato, e che poi ha richiamato per davvero – molti giovani presenti in sala, che, non sapendo se e quando applaudire, accennavano timidi battimani al termine di quasi ogni movimento; ma anziché puntare il dito su questo, si potrebbe puntare sottolineando intanto la loro presenza in sala, dato da non sottovalutare, e l'educazione musicale ormai scomparsa dalle scuole –, a beneficio dei quali un'introduzione del musicologo Sergio Bestente – ma sarebbe più corretto chiamarla prolusione, invero un po' troppo lunga e dispersiva e che ha ingenerato alla fine noia e distrazione, complice anche l'emozione che ogni tanto le parole tradivano – ha provveduto a spiegare e contestualizzare.
Il programma spazia dal primo Romanticismo al Novecento pieno. Si parte con Le Ebridi (la grotta di Fingal), ouverture da concerto in si minore Op.26 di Felix Mendelssohn-Bartholdy, nata sotto le suggestioni del viaggio in Scozia nel 1829, dove il giovane compositore si recò in visita durante il grand tour che ogni giovane benestante e di cultura compiva a quell'epoca. La formazione basaltica dell'isola di Staffa, nelle Ebridi interne, dove i venti mugghiano e i marosi si infrangono, restò vivida nella memoria del ventenne Mendelssohn (che il padre strigliava a distanza con una lettera affinché usasse il cognome Bartholdy, onde stornare da lui l'origine semita – questo uno dei contenuti dell'introduzione di Bestente –); tornato a casa, l'anno dopo quelle suggestioni presero la forma dell'ouverture che oggi conosciamo, e che venne eseguita per la prima volta a Londra nel 1832 (anche Brahms si interessò alla grotta di Fingal: si ascolti Op.17 nº4). Personalmente si tratta di un appropriato pendent che arricchisce il ciclo sinfonico Mendelssohn-Gatti da poco concluso alla Rai.
Restando nella tonalità “bachiana” di si minore, retrocediamo temporalmente di qualche anno (1822) per incontrare la Sinfonia nº8 D 759 di Franz Schubert. Se il collegamento Mendelssohn-Shoah è l'origine ebrea del compositore e la messa al bando di tutta la sua musica durante il Nazismo, Ebridi comprese, il collegamento con Schubert fa leva sui milioni e milioni di vite troncate, interrotte e dimenticate e la struttura della sinfonia, che consta dei due primi movimenti e si interrompe dopo 128 battute dello Scherzo (troppo frammentarie per essere eseguite); abbandonata apparentemente senza motivo, ragion per cui si guadagnò il soprannome di Incompiuta, venne consegnata ad Anselm Hüttenbrenner e da questi custodita per più di quarant'anni; fu poi riscoperta da Johann Herbeck e diretta per la prima volta nel 1865. Schubert era morto da trentotto anni, più di quanti ne avesse vissuti.
Chiude il programma la Sinfonia nº9 in mi bemolle maggiore Op.70 di Dmitrij Šostakovic. Quando nel 1945 il Partito commissionò al più importante compositore sovietico del momento una grandiosa sinfonia per celebrare la vittoria della seconda guerra mondiale, si aspettò un pezzo magniloquente, magari un po' retorico, che concludesse quell'ideale “trilogia bellica” (cui Šostakovic non pensava minimamente) iniziata con la Settima, sotto le bombe dell'assedio di Leningrado, e con la cupissima Ottava, dedicata alle vittime di tutte le guerre. La Nona è tutto l'opposto: è il circo che arriva in città, musica che in neanche mezz'ora risolve tutto (è la più stringata del corpus sinfonico, a parte la Seconda), clownesca, tutta lazzi e sberleffi. E quando non è così, quando il clown si leva il trucco, assume i noti tratti dello Šostakovic meditativo e solipsistico (nel Moderato) o pessimistico e tragico (nel Largo), come se chiedesse all'uditorio che cosa ci fosse davvero da festeggiare, a fronte delle immani tragedie che in quei sei anni di conflitto si erano verificate. Stalin non la prese molto bene…
Forse, restando su Šostakovic, sarebbe stato più appropriato programmare la Tredicesima, più che la Nona, intitolata Babij Jar, in memoria non solo dell'omonimo massacro del 1941 (peraltro avvenuto in Ucraina, tematicamente attuale), ma di tutta la storia dell'antisemitismo in Europa, riassunta per sommi capi: disponendo dell'ottimo Coro di bassi del Teatro Regio di Torino, l'esecuzione sarebbe stata di sicuro impatto. Un'idea per le prossime programmazioni?
Se la scelta dei brani non appare del tutto centrata, l'esecuzione ripaga ampiamente. I meriti dell'orchestra sono notevoli, a fronte di minime debolezze che non vale la pena nemmeno di menzionare. Si apprezza la nitidezza timbrica degli archi, la notevole precisione delle varie sezioni, a cominciare da viole e violoncelli che aprono Le Ebridi col loro cullante moto ondoso, per finire con gli asciutti e pulitissimi interventi solistici del primo violino, Stefano Vagnarelli, nell'Allegro della Nona. Restando sugli archi, si apprezza anche il suono insinuante, come sonnolento e disincantato, di violoncelli e contrabbassi all'avvio dell'Incompiuta. Ottoni sugli scudi per i non tantissimi, ma quei pochi pregnanti, passaggi a loro affidati, non tanto nella coppia Schubert-Mendelssohn, quanto nella Nona: ottimo il primo trombone di Gianluca Scipioni, nel già citato Allegro (il salto di quarta che fa abbozzare a flauto e percussioni un accenno di marcetta, sulla quale potrebbero marciare soldatini giocattolo per pochi passi) e tutta la sezione nell'insieme negli scuri appelli del Largo. Ma sono soprattutto i legni a sedurre, per la resa scintillante e briosa delle numerose e non facili pagine loro affidate da Šostakovic: scalette veloci, note ribattute, uso di registri insoliti, cosa che crea un effetto straniante. Complimenti al flauto di Federico Giarbella, cui mi lega anche un lontano legame di parentela, all'ottavino di Roberto Baiocco, all'oboe di João Barroso, ai fagotti di Nicolò Pallanch e Orazio Lodin, che danno il loro meglio nel saltellante Allegretto finale, al primo di loro in particolare per le due difficili cadenze, spinte nel registro sovracuto, del Largo, e soprattuto al clarinetto di Luigi Picatto, che intride tutto il Moderato di grande e pensosa espressività.
Ingranaggi di un meccanismo funzionante come un orologio, che Frizza coglie nel loro insieme e conduce ad esiti convincenti. Personalmente lo conoscevo soltanto come direttore d'opera: è ancora fresco il ricordo della Favorite bergamasca del dicembre scorso, l'ultimo suo successo cui ho assistito. Come direttore sinfonico si rivela una scoperta non meno interessante. Avvezzo al repertorio primo-ottocentesco, riversa nelle Ebridi e nell'Incompiuta la coeva espressività romantica operistica, giocando su una concertazione impeccabile, accurata e molto equilibrata, una sonorità complessiva morbida, pastosa, accordando un maggior favore alle ombre, più che alle luci, e velando anche il sereno Andante con moto schubertiano – il secondo movimento dell'Incompiuta – di tenue malinconia. Va da sé il rimarcare i passaggi più tumultuosi che vengono a offuscare questa serenità, ma senza isteriche esagitazioni. Anche l'Allegro moderato, in questa direzione, sempre dell'Incompiuta, turba ma non inquieta. Più asciutto il suono della Nona, ma senza rinunciare a una buona dose di cantabilità “alla romantica”, contravvenendo alla lettura, forse preferibile ma inflazionata, di uno Šostakovic per forza sempre nevrotico.
Christian Speranza
7/2/2023