Scintille di dolore umano
Sarebbe molto interessante chiedere a certe politicanti che interpretano molto liberamente il burka islamico come un'espressione di diversità culturale che va comunque rispettata, e che alla stessa maniera ritengono l'assoluta sottomissione della donna all'uomo nella cultura islamica un'altra particolarità culturale, come anche l'infibulazione e piacevolezze religiose del genere, se hanno ancora un pallido ricordo delle complesse e per certi versi sanguinose vicende storiche che portarono a quella che oggi viene chiamata parità di genere. Ci riferiamo in particolare sia alle lotte delle suffragette, i cui sacrifici fruttarono il voto alle donne, sia ai tanti episodi di sangue che stanno alla base della Festa della Donna, oggi ridotta a un tripudio di mimose e a una serie di dibattiti più o meno verbosi dai quali rimane rigorosamente escluso il fatto che nei paesi arabi la metà della popolazione (quella femminile naturalmente) è ancora praticamente in stato di schiavitù.
Sarebbe altrettanto interessante chiedere ad altri politicanti che si autodefiniscono di sinistra, e che hanno provveduto negli scorsi anni a cancellare l'articolo 18 e tutta una serie di tutele per i lavoratori, cosa è stato realmente fatto per alleviare il fenomeno delle morti sul lavoro e del caporalato, oltre alle consuete, luttuose e melense indignazioni ogni volta che un operaio cade da un'impalcatura, finisce dentro un altoforno, o quando quegli stessi extracomunitari oggetto delle più accorate cure (a parole) della sinistra vengono costretti a raccogliere pomodori per pochi euro al giorno.
Donne schiavizzate (ma è cultura!) e operai e operaie che muoiono sul posto di lavoro: di fatto, dai primi decenni del Novecento, non è cambiato nulla. Ancor oggi si muore per guadagnarsi il pane, ancor oggi gli imprenditori lucrano sulla vita delle persone (operai, camionisti che transitano su ponti, braccianti agricoli), e quel che più indigna, riescono a essere assolti, a cavarsela con risarcimenti, e pretendono di ricostruire gli stessi ponti che hanno fatto crollare per incuria.
Scriveva Dante che “poca scintilla gran fiamma seconda”, ma questa era solo la pia illusione di un poeta: sono state così tante le scintille assassine che hanno bruciato operai e operaie che avrebbero dovuto far divampare un incendio colossale di provvedimenti legislativi e di severissime pene, in grado di scoraggiare realmente la sete di lucro degli imprenditori, e invece ancor oggi costoro riescono a cavarsela quasi senza danno. In compenso però abbiamo la festa della donna, ridotta a riunioni di menadi intorno a spogliarelli maschili, e preoccupazioni per Società Autostrade che non può essere estromessa dal patrimonio viario italiano, perché la Borsa avrebbe a risentirne…
Ben venga dunque almeno la voce di qualche intellettuale che sente il bisogno di rammentare alla società distratta e ai politici in malafede il sangue di cui grondano le conquiste delle donne e degli operai, conquiste oggi svendute proprio da quel partito che dovrebbe difenderle. In quest'ottica, meritoria è l'operazione dello Stabile di Catania di inaugurare il 9 ottobre la stagione 2018-2019 con un intenso atto unico di Laura Sicignano, Scintille, incentrato su un incidente che il 25 marzo 1911 costò la vita a 146 persone, in massima parte donne, giovanissime e non, giunte in America sull'onda di un sogno di benessere che nei fatti significò anche sfruttamento, emarginazione, morte. Nel giro di pochi minuti la fabbrica TWC di New York, produttrice di camicie, si tramutò in un rogo immane, con le operaie che si lanciavano dalle finestre, che bruciavano, tentando invano di aprire le porte sigillate degli stanzoni soffocanti nei quali erano rinchiuse fino alla fine dell'orario di lavoro. Una tragedia che non fu soltanto femminile, ma che investì tutta la classe operaia, e che si concluse con la piena assoluzione dei proprietari, e con miseri risarcimenti alle famiglie delle vittime.
La regia, essenziale ma pregnante, curata dalla stessa Sicignano, si è avvalsa delle scene di Laura Benzi, che è riuscita a ricreare con pochissimi elementi l'atmosfera cupa e desolata di una fabbrica di inizio Novecento. Le musiche, scritte da Edmondo Romano, accompagnavano la recitazione senza mai sovrastarla, punteggiando anzi i momenti salienti del copione, così come il disegno luci di Tiziano Scali. Un esempio di come, anche in tempi di crisi, si possa fare autentico teatro con pochi mezzi, quando il copione funziona e riesce, nonostante l'argomento, ad avvincere lo spettatore e a strappargli entusiastici applausi. Un'inaugurazione al di fuori degli schemi triti e ritriti cui ci avevano abituato dirigenze precedenti, con spettacoli di mediocre livello artistico che poco o nulla lasciavano nella mente dello spettatore.
Un lavoro coraggioso, una grande pagina di teatro civile, affidata al talento drammatico e alla perfetta dizione di Laura Curino, che con una recitazione dimessa, quasi impersonale, dove il dolore è sempre interiore e mai estremizzato, ma affidato alla singola parola, a una pausa, a una minima inflessione vocale, a un gesto rassegnato e perciò tanto più incisiva e lacerante, dà vita ora a una madre giunta in America perché il marito ha voluto così, ora alle giovani figlie, ora a una coraggiosa operaia russa anima delle prime lotte sindacali, ora a un coro di umanità dolente, rassegnata, la cui vita è tutta in uno stanzone maleodorante, a consumarsi gli occhi tra lampade a gas e camicie da cucire, vero e proprio simbolo di quell'alienazione marxista del lavoro oggi bellamente dimenticata anche dagli studenti di filosofia.
Giuliana Cutore
13/10/2018
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