RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Ernani ritorna a Venezia

Di ritorno vero e proprio si tratta: Ernani, quinta opera di Giuseppe Verdi, debuttò alla Fenice di Venezia il 9 marzo 1844 e si ripresenta nel palinsesto del Serenissimo teatro nello stesso mese del 2023 (si commenterà di seguito la seconda recita di domenica 19): centosettantanove anni di vita per un titolo che nel tempo non ha perso freschezza ma, col senno di poi, ha dimostrato di essere stato, per il trentunenne bussetano, uno snodo fondamentale della sua produzione e un laboratorio di forme e contenuti anticipatori degli esiti teatrali venturi, un laboratorio di novità, a cominciare dal librettista, quel Francesco Maria Piave che proprio con Ernani iniziava a scrivere per Verdi e all'epoca non poteva sapere di essere alle soglie di una collaborazione che, con alterne vicende, sarebbe durata vent'anni. Con questo spettacolo, e ciò va detto a onore del teatro, la Fenice aderisce al progetto di acquisizione di Villa Verdi da parte dello Stato, devolvendo alla causa il ricavato della prima.

Un ritorno controverso, per certi versi riuscito, per altri no. Riccardo Frizza, specialista del repertorio primo-ottocentesco belcantistico, che solitamente dà prova, almeno per chi scrive, di un sicuro bilanciamento buca-palcoscenico, incappa stavolta in qualche effervescenza di troppo nel trattare l'orchestra – la splendida Orchestra del Teatro La Fenice, la cui unica veniale pecca è quella di non fondere a dovere talvolta i legni con l'impasto timbrico complessivo – con troppa esuberanza, qua esaltando il lato marziale-percussivo – un esempio su tutti, il tamburo del coro d'apertura –, là marcando eccessivamente il tempo ternario e facendo credere all'ascoltatore sprovveduto che Verdi si possa davvero ridurre al tanto ridicolizzato zumpappà dei detrattori. Per il resto, asservisce adeguatamente l'orchestra ai cantanti, in termini sia di volume, sia di agogiche, piuttosto convenzionali, da una parte facendo tesoro della sua esperienza nell'equilibrio aggraziato dei concertati di donizettiana ascendenza, dall'altra concedendo, come s'è detto, talvolta fin troppa verve ai passaggi più corruschi: ma chissà, forse il giovane Verdi, quasi prigione michelangiolesco, che proprio in quegli anni si stava svincolando dal modo di “fare opera” correntemente inteso all'epoca, guadagnando palmo a palmo la sua strada, avrebbe apprezzato quest'enfasi baldanzosa…

Discorso più articolato per il cast, che supera, sì, l'esame al traino di un Michele Pertusi di inscalfita pregnanza, di grande duttilità nel calibrare le risorse e di indiscutibile eleganza nel fraseggiare e nel tornire vocali e consonanti – cosa che gli fa dipingere un Silva per il quale quasi verrebbe da parteggiare, non così demoniaco come lo si suole dipingere ma raffigurato in modo che emerga soprattutto il lato più nobile del personaggio, pur in un sistema di valori distorto quale è quello dell'onore castigliano dell'opera –, ma con delle riserve: il Don Carlo di Ernesto Petti è fiero e spavaldo nei primi due atti (o “parti”, come le chiama Piave), grave, solenne e riflessivo nel terzo, il volume vocale è ampio, il timbro, se non bellissimo, è scuro il giusto da ricoprire questo e altri ruoli, l'emissione, tranne al suo ingresso in scena, dove risulta ingolata e velata, è in generale buona: l'espressività, tuttavia, difetta, risultando il più delle volte monolitica, poco malleabile ai cambiamenti psicologici del personaggio – e dire che, tra tutti, il Don Carlo nell'Ernani è colui che davvero evolve nel corso dei tre atti, che muta, cosa che ne fa il personaggio più vivo e più realistico, più a tutto tondo, mentre gli altri, a ben vedere, sono soprattutto dei “tipi” caratterialmente standardizzabili; si unisca tale poca malleabilità dello strumento a un sistematico evitamento del canto in piano, forse a causa dell'importante volume cui si accennava, e si otterrà un Don Carlo che canta costantemente quasi tutto uguale e quasi tutto forte o mezzoforte: risultato, un personaggio poco sbalzato, bidimensionale. Appena sufficiente Piero Pretti nel rôle-titre, e spiace qui constatarlo a dispetto di più lusinghieri giudizi apparsi per la prima e di un repertorio di tutto rispetto (Poliuto, Manrico, Pinkerton, ecc.): fosse serata “no” o grave abbaglio di chi scrive, la voce di Pretti risulta piccola per il ruolo, poco incisiva, poco scavata, tecnicamente corretta ma poco di più. Solleva ampiamente le sorti Anastasia Bartoli, una Elvira di tutto rispetto, forse non del tutto a fuoco nel registro acuto, nel quale comunque non manca di valere, ma a suo pieno agio in quello centrale e in quello grave, voce cui manca poco per raggiungere sicurezza e solidità complete; dalla sua ha già un bel controllo delle agilità, una vocalità ampia e sostenuta, morbidezza di accenti e gestione dello spazio scenico.

Il cast, completato dalla Giovanna di Rosanna Lo Greco, dal Don Riccardo di Cristiano Olivieri (spesso, ahimè, carente) e dallo Jago di Francesco Milanese, è affiancato dal Coro della Casa istruito da Alfonso Caiani, encomiabile non solo nel famoso Si ridesti il Leon di Castiglia, ma anche in tutti gli altri interventi.

Il nuovo allestimento, in coproduzione col Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, porta le firme di Andrea Bernard (regia), Alberto Beltrame (scene), Elena Beccaro (costumi) e Marco Alba (luci). Per comprendere le scelte registiche, sceniche e costumistiche, si parta da una premessa: per ridurre i cinque atti dell'Hernani di Hugo secondo i voleri di Verdi, che esigeva «brevità e fuoco», occorreva una mano che sforbiciasse a tutto spiano: e così fece Piave. Tale sfrondamento della trama ha condotto a una serie di situazioni al limite del paradossale, dove è facile cadere nel comico involontario: le scelte dei personaggi, guidate dal senso dell'onore da una parte e dall'amore per Elvira dall'altra, sono comprensibili solo accettando, come si diceva, un codice di comportamento che Hugo estremizza a fini drammaturgici. Condire la regia con un po' di psicologia per rendere comprensibili i personaggi, pur mantenendo un impianto di fondo didascalico, deve essere sembrato un buon compromesso a Bernard. Ecco quindi che, durante il Preludio, si assiste a una proiezione video in bianco e nero, un flashback in cui il bambino futuro Ernani piange la salma del padre in cotta di maglia, sullo sfondo del castello avito che brucia. Le arse rovine giustificano il fondale completamente nero e i blocchi sbalzati per terra, neri anch'essi, mentre il tumulo del padre passa dalla proiezione al palcoscenico, dove rimane dall'inizio alla fine in primo piano a destra e al quale ogni tanto si accosta Ernani, significativamente anche nel momento in cui deposita il cappuccio con cui si maschera durante la congiura, perché è grazie alla congiura che spera di uccidere Don Carlo e vendicare il genitore. Sempre durante il video, al bambino si avvicina una sorta di apparizione, un cavaliere in armatura con ampie ali bianche da angelo che gli porge un corno, il «pegno» (cavaliere in armatura + ali: la mente dello scrivente corre a Lohengrin): il figurante torna nell'opera nei momenti clou, come nel finale, in cui assiste la morte di Ernani come presenza consolatrice. La presenza di oggetti in scena è limitata a sedie di legno nere (sul destino eroicomico delle sedie nell'opera ci sarebbe da scrivere un epicedio, sempre sbattute a terra, vittime di attacchi d'ira del protagonista di turno…); ma pochi dettagli essenziali riescono a focalizzare l'attenzione sui momenti chiave: catafalco di Carlo Magno sullo sfondo nel terzo atto, acquasantiera nella quale i congiurati, inferraiuolati e incappucciati di grigio, gettano i biglietti dai quali verrà estratto il nome di Ernani (un po' meno macabro di quanto Piave prescrive nel libretto – gettare le tavolette coi nomi in un «avello scoperchiato» –), desco nuziale al quarto atto con tovaglia e un paio di calici, tovaglia che nasconde non un tavolo, ma una bara di legno, azzeccata simbologia (am)bivalente che si svela quando Silva, con estenuata lentezza, fa scivolare via la tovaglia cantando «Nel momento in che Ernani vorrai spento…». Molto scenografico il telo che si leva dietro Don Carlo sulle parole «A Carlo Quinto sia gloria ed onor», con l'asburgica aquila bicipite, qui nera in campo bianco, e “Lohengrin” che incorona il nuovo imperatore. I coriandoli alle nozze del protagonista si sarebbero però potuti risparmiare.

Predominando il dato psicologico, quello didascalico viene ridotto al minimo, e si esplicita in accenni di elementi architettonici stilizzati grazie a pannelli chiari calati dall'alto che richiamano il gotico iberico per le stanze del castello di Silva: una strombatura, due finestre – una monofora e una trifora, con tanto di traforo –, le vele di una volta, archi a sesto acuto, ecc. Meno intuitiva l'illuminazione del castello di Ernani al quarto atto, due colonne di luce a sinistra e poco altro. Poco inquadrabili anche i costumi, che, non dovendosi rifare a nessuna epoca storica, in questa rivisitazione spaziano dal rosso dell'abito di Elvira, alla tinta rame per la blusa Don Riccardo, all'ocra per quella di Don Carlo, al vinaccia per quella di Ernani, che alterna a un'abbondante camicia bianca. Perché poi Giovanna debba indossare un abito arancione con tanto di occhiali fashion arancioni anch'essi e perché l'abito nuziale dono di Silva arrivi dentro una teca in plexiglas rimane un mistero: ma ciò non ha impedito al pubblico di tributare applausi convinti al direttore e a tutta la compagnia.

Christian Speranza

28/3/2023

Le foto del servizio sono di Silvestri@.