Il primo Ernani non si scorda mai
Tanto per me, quanto per James Conlon, l'Ernani andato in scena al Maggio Musicale Fiorentino nel mese di novembre 2022 è stato il primo: dal vivo tra le file del pubblico per me, dal podio del direttore per lui. «Ernani sarà la diciassettesima opera di Verdi che avrò diretto dalla mia prima esecuzione di Falstaff, quasi esattamente cinquant'anni fa», specifica nel programma di sala. Direttore eminentemente verdiano non lo si può dire, avendo in repertorio un'ampia e variegata gamma di titoli (nel mezzo delle rappresentazioni di Ernani, il 12 novembre, il giorno prima della recita di cui riferisco, ha diretto brani agli antipodi come il Trittico botticelliano di Respighi e la Quarta Sinfonia di Šostakovic); direttore con esperienza, sì: oltre cinquecento recite verdiane! Lo ritrovo con piacere, dopo aver lasciato la direzione principale dell'Orchestra Sinfonica della Rai a Torino nel 2020. E si conferma una garanzia. Tolte un paio di occasioni in cui le scene vengono fatte succedere in maniera repentina, cosa che rende difficoltoso un reset psicologico in un'opera che non dà tempo di pensare ma è tutta «fuoco, azione e brevità» (cit. Verdi), la sua direzione è tutta al servizio delle voci, secondandole senza mai prevaricarle, sottolineando anche nelle linee di canto i punti salienti (stupendi i tremoli sotto il motto del patto, quando viene scandito sia da Ernani, sia da Silva) e dando corposità e insieme eleganza alle pagine scopertamente strumentali, massime i Preludi a prima e terza parte: non demonizza l'incipit del primo, già presago di quello di Rigoletto, semmai lo teatralizza; e quanta pensosità nel clarinetto basso del terzo, solipsistica divagazione, perfetta per introdurre le tombe di Aquisgrana. Quanto al cast, l'allestimento fiorentino può vantarne uno di prim'ordine. Oltre a Conlon, ritrovo Francesco Meli, dopo averlo lasciato in era pre-Covid alle prese (non riuscitissime) con il Cavaradossi scaligero del 2019; qui invece, nel ruolo eponimo si rivela nel suo ambiente naturale. Attacca fin troppo convinto, con Mercè, diletti amici… Come rugiada al cespite, ma ha tutte le carte in regola per farlo e per sostenerlo. Il timbro è chiaro, la vocalità spianata e potente, pur non raggiungendo eroismi alla Del Monaco che forse qui sarebbero quasi fuori luogo. Ma calare una vocalità di stampo e di formazione belcantistica nel repertorio primo-verdiano, che belcantistico propriamente non è più, rappresenta in questo caso un esperimento convincente. Le riprove non mancano lungo tutta la recita, ma la conferma si ha nell'agonia di Ernani, quando dopo la pugnalata autoinfertasi, prega Elvira di continuare a vivere: un canto in pianissimo, dall'emissione controllata e ferma, che solletica il falsetto senza provocarlo, turbato da spasimi verosimili, fino a spegnersi. Tornitura di frasi e intelligibilità di sillabazione che lo accomunano a un'altra conoscenza, il Don Carlo di Roberto Frontali, che ritrovo dopo il Belisario bergamasco del 2020. Che meraviglia ritrovarlo non più in un teatro vuoto come a Bergamo ma su un palco! Eppure, nonostante una prova complessivamente di valore, il ruolo non pare attagliarglisi fino in fondo. Il personaggio nel quale si compie la maggior trasformazione psicologica, da spavaldo profittatore della sua posizione di potere a sovrano illuminato alla Clemenza di Tito, sembra in realtà non procedere con questa evoluzione, cambiando poco o punto atteggiamento da prima a dopo. Il fulcro è naturalmente la terza parte. E spiace soprattutto constatare certe difficoltà esecutive, di fiato, di intonazione, di legatura, proprio nel suo pezzo principale, Gran Dio!… Oh, de' verd'anni miei (come non riconoscere una similarità di contenuti tra la scena e il Credo dell'Otello nel pronunciare una convinta asserzione del nulla? Il registro vocale cui è affidato è poi lo stesso…). Ciò non toglie che i duetti, i terzetti e i concertati che lo vedono protagonista nelle prime due parti siano da lui sostenuti con impegno e resa convincenti.
Recentemente già Leonora nel Trovatore qui al Maggio, ecco di nuovo María José Siri questa volta come Elvira. E si riapprezza il suo registro grave, il suo strumento quasi mezzosopranile, ma anche gli slanci luminosi verso l'acuto, qui compenetrati di una buona potenza sonora nei momenti più drammatici (parte quarta, scena settima). L'avvio è invero sottotono, la voce ancora fredda, e la cavatina Ernani! Ernani, involami non riesce al meglio – lo smalto è opaco, c'è poco mordente –; ma ha modo di rifarsi lungo il resto dell'opera, sfoggiando talento e abilità. La rivelazione è però il Silva di Vitalij Kowaljow: il basso ucraino, che ha collezionato inviti prestigiosi e riconoscimenti internazionali, sfodera uno strumento rotondo, caldo, denso, ricco di sfumature, lirismo e pathos. Il repertorio spazia da Wotan a Colline, e ci si accorge che il ruolo qui assegnatogli è padroneggiato senza problemi. E se proprio un difetto vogliamo trovargli, è quello di una dizione non sempre chiara, benché comprensibile. La lingua di origine certo non aiuta: in compenso, ricupera la tradizione delle grandi voci gravi slave, i Ghiaurov, i Christoff (e più di recente i Miller: ma lì si entra nel regno dei canti ortodossi russi) e la adatta alla dimensione della cantabilità italiana. Molto ben riuscito il suo Infelice!… e tuo credevi e la pregnantissima conclusione della parte quarta.
Completano il cast i validi Xenia Tziouvaras (Giovanna), Joseph Dahdah (Don Riccardo) e Davide Piva (Jago), che si avrebbe piacere di ascoltare ancora, possibilmente in ruoli più importanti perché meritano.
Plauso anche all'Orchestra e al Coro della Casa, molto ben istruito da Lorenzo Fratini, che ha modo di brillare per unità e coesione non solo nel famoso Si ridesti, ma anche in tutte le altre pagine, dall'Evviva! Beviam! all'Esultiamo! Letizia ne inondi! La compagine maschile si fa un poco più preminente su quella femminile, sfiorando talvolta l'irruenza (il che può anche andar bene, volendo esaltare l'aspetto più cameratesco, poniamo, dei banditi beoni del primo coro), ma si tratta di squilibrio pressoché trascurabile.
Ernani mancava al Maggio da sessant'anni. Per la ripresa del titolo si affida il nuovo allestimento a Leo Muscato, che decide di ambientare l'opera, anziché nel 1519, negli anni contemporanei alla sua stesura (due dati storici: quinta opera di Verdi, la prima scritta con la collaborazione di Francesco Maria Piave e non per La Scala, ha il suo battesimo alla Fenice di Venezia il 9 marzo 1844). Il perché ce lo spiega lui: «L'ambientazione che abbiamo scelto […] ci è stata suggerita dallo spirito rivoluzionario e anche un po' barricadiero del coro Si ridesti il Leon di Castiglia», e ben si sa quanto patriottismo quel coro abbia ispirato, convertendo Castiglia in Venezia. Ora, benché continui a non capire perché ci si debba immaginare qualcosa di diverso dal libretto, e pur dando luogo a pesanti anacronismi (come mandare in crisi uno studente di storia: Carlo V incoronato nel 1844, vedi Ernani), se si astrae la vicenda dal contesto storico, il tutto può ancora funzionare, semplificando l'opera in una lotta di classe tra i rivoluzionari borghesi da una parte – abbigliati come nelle ricostruzioni storiche per l'Unità d'Italia: casacche, bandoliere, foulard – e il potere costituito dall'altro – fatto di uniformi, fasce, mostrine e alamari: costumi accattivanti di Silvia Aymonino –, l'insieme condito di una buona trama di amore, vendetta e onore.
Desolatamente vuote invece le scene di Federica Parolini. Due pareti mobili grigio scuro, incardinate alle due estremità del palcoscenico, si aprono a metà come un portone, spinte dal mezzo da due figure nere incappucciate, che poi diventano quattro (la morte? Il destino?). E si aprono letteralmente sul nulla, su un palco vuoto, delimitando uno spazio ora triangolare, ora rettangolare, ove i cantanti e le masse corali esprimono ben poca autonomia di movimenti. Soventi sono i freeze che bloccano coro e solisti, come durante l'Infelice! di Silva (ma non solo: la soluzione è sfruttata più volte); il coro, poi, conosce tre sole posizioni: tutti su un lato, tutti sull'altro, schierati sul fondo come in un'esecuzione oratoriale. I solisti non possono giocare con oggetti di scena – inesistenti – e la loro recitazione, forzatamente statica, ricorda quanto si diceva un tempo: Manrico si canta così (braccio destro in alto), Radames si canta cosà (braccio sinistro in alto). Non è che non sappiano recitare: è che non possono. Si sa, poi, che quando dei congiurati si adunano in tombe ipogee si portano gli sgabelli da casa, come succede qui: sia mai che il marmo sia freddo. Ma quale marmo? In scena non c'è nulla. A compensare in parte ci pensano le luci di Alessandro Verazzi: suggestivo il cono su Meli mentre canta Come rugiada, in ombra il resto (ricorda certi interni alla Chardin o luci di quadri fiamminghi; parrebbe di essere nel retro di un'osteria, con un po' di immaginazione), belle le scritte luminose su un parallelepipedo grigio (unico altro elemento in scena) a imitare iscrizioni latine sulle tombe. C'è chi parlerebbe di minimalismo. Io parlo di idee e di un progetto registico che avrebbe potuto essere sviluppato in maniera più completa e che avrebbe forse convinto anche di più.
Christian Speranza
16/11/2022
Le foto del servizio sono di Michele Monasta.
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