RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

In fondo al mar...

La «maledizione della Nona» è una ben nota leggenda della classica: da Beethoven in avanti, nessun sinfonista avrebbe potuto oltrepassare il limite della nona sinfonia. Chi l'avesse fatto, sarebbe morto. Schumann e Brahms non andarono oltre la quarta; Mendelssohn arrivò alla quinta, escludendo la dozzina di lavori giovanili per archi. Schubert arrivò alla nona, la “Grande” e morì; Bruckner non riuscì neanche a finirla, la sua nona (ovvio: aveva già scritto la “numero 0” prima della Prima) e Mahler provò a interporre, tra l'Ottava e la Nona, Das Lied von der Erde, evitando di chiamarla “sinfonia”: ma morì senza completare la Decima. Dmitrij Dmitrevic Šostakovic fu più furbo: anziché proseguire sulla falsariga della Settima (“Leningrado”) e dell'Ottava, colossi sinfonici di oltre un'ora e con profondi significati extramusicali, compose una striminzita Sinfonia n°9 in mi bemolle maggiore Op.70 di una mezz'oretta, giocosa e leggera. In apparenza. Certo: gesto nobile aver incitato il popolo russo componendo la Settima sotto le bombe naziste; gesto ancor più nobile aver dedicato l' Ottava ai caduti della seconda guerra mondiale; ma quando, nel 1945, Stalin chiese a Šostakovic una sinfonia per celebrare la vittoria, certo non si sarebbe mai aspettato un lavoro come la Nona. Non la prese molto bene. Ma il messaggio arrivò chiaro: dopo sei anni di conflitto, qualsiasi vittoria non avrebbe mai riparato il danno di milioni di morti. Che vittoria poteva mai essere? Ridicola. Come la Nona. Le marce trionfali diventano marcette, la fanfara si riduce a due sole note dei tromboni; solo nel Largo si scorge il familiare Šostakovic cupo, pessimista; ma è un attimo: e l'Allegretto conclusivo nasconde il malumore sotto la maschera borghese del “tutto è bene quel che finisce bene”. Ci penserà la Decima, composta nel 1953 alla morte di Stalin, a fugare ogni dubbio su come il compositore la pensasse davvero, sul dittatore e sulla guerra.

Di tutt'altro stampo è il secondo brano del concerto di sabato 3 novembre 2018 dall'auditorium Arturo Toscanini di Torino. L'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), guidata dal James Conlon, suo direttore principale, ha presentato Die Seejungfrau, fantasia per orchestra in tre movimenti di Alexander von Zemlinsky, datata 1902, ispirata alla Sirenetta di Hans Christian Andersen. Figura non minore ma misconosciuta del primo Novecento mitteleuropeo, Zemlinsky si colloca in seno alla Vienna contesa fra tradizione in disfacimento, wagnerismo decadente e nuove tendenze sperimentali. E di sperimentalismo, Zemlinsky deve averne respirato parecchio: oltre ad essere stato uno degli amori di Alma Schindler, che lo lasciò per Gustav Mahler, fu maestro di Schönberg, il quale ne sposò la sorella. Nel 1905, la sera della première, era in programma anche il Pelleas und Melisande del suo allievo futuro inventore della dodecafonia. Il successo del Pelleas fu così grande, da indurre Zemlinsky a confinare la sua Sirenetta in fondo al mare; anzi, in fondo a un cassetto. Ne riemerse, completa dei suoi tre movimenti (smembrati nel corso degli anni), soltanto nel 1984, quarantadue anni dopo la morte del compositore. Die Seejungfrau, non vero poema sinfonico, non vera sinfonia, ma “fantasia” senza una struttura precisa e basata su due-tre temi principali variamente combinati e sviluppati, esemplifica alla perfezione il suo uso sapiente della grande orchestra postromantica. Di figurativo, di evocativo, onestamente c'è poco, a parte quell'ondeggiare che richiama il moto del mare; è più da intendersi come un quadro astratto; ma di grandioso, di ingegnoso, talvolta di straripante, c'è moltissimo. E non possiamo che farci travolgere anche noi dal mare, questo sì, vero e proprio, di suoni, che Zemlinsky fa scatenare per noi dalla sua orchestra versatile e multiforme.

Dal canto suo, Conlon coglie in pieno l'afflato sinfonico della partitura, dandole ampio respiro, permettendo alle arcate melodiche di dispiegarsi con nitidezza. Di cantabilità vera e propria non si può parlare, in Die Seejungfrau: piuttosto, si ha l'avvicendarsi di timbri orchestrali e di temi più o meno accennati. Ed è in questo saper mescolare senza appesantire i timbri che sta l'abilità e la scienza di Conlon, in questo far emergere al di sopra di un tessuto strumentale molte volte nutrito i frammenti di tema, dando all'esecuzione l'unità la continuità e di cui necessita. Operazione che, a onor del vero, non riesce sempre: talvolta l'esile trama tematica viene adombrata dal resto dell'orchestra; tuttavia, gli interventi solistici che a tratti punteggiano l'esecuzione vengono ben delineati ed eseguiti comme il faut. L'OSN asseconda il suo volere piegandosi alle più diverse esigenze timbriche, duttile ai suoi cenni, ben compatta in ciascuna sezione; come sempre gli archi rappresentano la punta di lancia, seguiti a breve distanza dal resto della compagine che, nell'insieme, tiene alto il nome dell'orchestra.

Più variegata la lettura della Nona di Šostakovic. L'apparente “facilità” della partitura (in realtà un ginepraio di brusche sterzate armoniche calate in una struttura tutt'altro che scontata) non distrae Conlon dal condurla con precisione quasi meccanica, avvicinandola a tante pagine di “musica motoristica” alla Prokof'ev e accentuando così il senso di straniamento, di indifferenza che ne promana, come quella di un giocattolo a molla che arresta il suo moto al termine della carica. Gli accenni di fanfara dell'Allegro d'apertura si stagliano netti sul resto dell'orchestra, ma non riescono a risultare davvero trionfali, seguiti come sono dagli interventi infantili dei legni; anzi, danno l'idea di un esercito di burattini in marcia, innocui pur nelle loro uniformi. E un che di burattinesco conserva anche l'Allegretto-Allegro finale, sebbene più turbinoso e in certi passaggi circense. Giocoso e leggero il Presto centrale, in cui si apprezza il pregevole intervento solistico di Marco Braito, prima tromba. Cambio totale di registro espressivo, invece, per il Moderato e il Largo (plauso al primo fagotto Elvio Di Martino per le cadenze solistiche spinte nel registro sovracuto dello strumento), dove al clima intimistico del primo rispondono gli ottoni minacciosi, scuri, con il loro colore brunito che riesce davvero, nell'interpretazione intensa ma al contempo misurata e solenne dell'OSN, a invertire la percezione di quanto ascoltato prima: il male c'è, ma per una volta si cerca di non pensarci.

Christian Speranza

14/11/2018