VIXI d'arte
La Sesta Sinfonia di Mahler alla Scala
«Mio Dio, tu chiami la Morte», avrebbe sussurrato atterrita Alma, quando Gustav finì di suonare per intero la sua Sesta appena terminata. E in effetti, al di là di tutte le leggende che nel tempo sarebbero sorte su questo brano, un che di luttuoso la Sesta ce l'ha. Quando poi il Teatro alla Scala decide di programmarla per venerdì 17 gennaio 2024, seconda delle tre esecuzioni in cartellone (di cui si riferisce), sembra quasi dar credito ancora una volta ad Alma in quel «voler chiamare le disgrazie»: il contraltare sinfonico di quanto in campo operistico ha aperto la stagione. Si sa, il 17 porterebbe jella perché, scritto alla romana, XVII può essere anagrammato in VIXI, “ho vissuto”, quindi sono morto. Ma se scomponiamo VIXI, VI sta per sesta, come la sinfonia in esame, XI per undicesima: ovvero quella sinfonia che Mahler chiamerà “decima” per ingannare la sorte, non numerando Das Lied von der Erde, ma che di fatto sarebbe stata l'undicesima: se la morte non lo avesse colto prima (sarà un caso che a febbraio la Scala abbia programmato proprio la Decima?).
Coincidenze, senza dubbio. Ma a ben vedere, si tratta delle due sinfonie in cui Mahler si rivela, si “confessa” forse più di quanto non faccia nelle altre: «Nessun'opera gli è sgorgata tanto direttamente dal cuore come questa». Sempre stando alle testimonianze della moglie Alma, nella Sesta Mahler avrebbe presentito le sventure che di lì a poco gli sarebbero accadute: la diagnosi di endocardite che lo avrebbe portato alla tomba, la morte della primogenita Maria Anna cinquenne e la fine del rapporto decennale con l'Hofoper di Vienna. Tutte nel 1907. Tre colpi del destino che si ripercuotono nei tre colpi di martello dell'immenso Finale, dove «il terzo colpo lo abbatte, come un albero». Parola di Mahler, ancora dalle Erinnerungen di Alma. Ma per quanto fosse un grande compositore, sarebbe troppo attribuirgli doti di veggente. La Sesta venne composta nelle estati del 1903 (i due movimenti centrali o forse i primi tre) e 1904 (Finale), in parallelo con quelle che sarebbero diventate le due Nachtmusik della Settima, mentre l'orchestrazione si protrasse fino al maggio del 1905. Venne poi eseguita in prima assoluta il 27 maggio 1906 a Essen diretta dall'autore. All'alba dell' annus horribilis, quindi, il capitolo Sesta era già concluso, per lo meno nella sua fase compositiva. Seguendo la sua biografia, a Mahler, in quegli anni, fresco di matrimonio, con Maria Anna in salute, la piccola Anna Justine appena nata (15/06/1904) e un'avviatissima carriera di direttore d'orchestra, le cose non andavano poi tanto male. È singolare quindi che un'opera così cupa sia nata in anni tutto sommato felici, con quell'ultimo accordo di La minore che piomba come una mannaia, e che per contro una tonalità sostanzialmente pacificata come il Re bemolle maggiore, la stessa che accompagnava le acque del Reno tornate in possesso dell'oro, chiuda la Nona in anni in cui salute e famiglia saranno venute meno.
Tre colpi. O meglio due. Perché nella revisione finale, il terzo colpo viene espunto da Mahler. Evidentemente, la valenza simbolica del numero tre non ha prevalso sull'estetica timbrica della sinfonia, a riprova che le suddette doti divinatorie siano parte dei miti di cui è alonata la “Tragica”. Che poi il soprannome sia stato dato da Mahler è vero, visto che al termine di innumerevoli saliscendi emotivi il brano non offre alcuna catarsi, diversamente dalla Seconda o dalla Quinta; ma la sua stessa frase, detta al suo biografo Richard Specht «La mia Sesta Sinfonia proporrà enigmi la soluzione dei quali potrà essere tentata solo da una generazione che abbia fatto proprie e assimilato le mie prime cinque Sinfonie», farebbe propendere per chiamarla ad esempio “l'Enigmatica”.
Che gli enigmi non siano soltanto tre, come per la «principessa di gelo», può essere materia di congetture. Che i colpi di martello nella versione definitiva siano invece soltanto due e non tre, superstiti dei previsti cinque iniziali, è invece incontrovertibile. Ed è da questo particolare che possiamo partire per addentrarci nell'esecuzione che ha visto Lorenzo Viotti dirigere la Filarmonica della Scala nel secondo concerto della stagione. Perché Viotti, seguendo una prassi direttoriale che vanta precedenti illustri, decide di reinserire il terzo colpo. Ma ci arriveremo.
Intanto, un'occhiata alla disposizione dell'orchestra dimostra la volontà di fare le cose in grande. L'organico è addirittura sovradimensionato, con nove contrabbassi in luogo dei canonici otto, più di venti violini primi, otto corni che diventano nove con l'assistente, tutti adeguatamente spaziati in modo che il suono possa respirare, con la pedana del golfo mistico rialzata a fare un piano unico col palcoscenico, per un totale di undici file di strumentisti e più di un centinaio di esecutori. D'altro canto, Mahler va fatto così. Qualitativamente l'orchestra si distingue per svariati pregi, garantendo un suono duttile, cangiante, adatto ai diversi climi espressivi che trascorrono dai trasognati incanti dell'intermezzo “montano” del primo movimento, dove viene aperta una porta sulla sinistra per far udire la batteria di campanacci fuori scena, all'abbandono malinconico dell'Andante moderato, agli eroismi, alle deflagrazioni, alla rudezza e direi perfino alla crudeltà del Finale. E pace se quell'ardito Si acuto della prima tromba (batt. 22) viene steccato poco dopo l'avvio: più che enigmi, la Sesta propone difficoltà esecutive enormi. A iosa. Una dopo l'altra. E d'altronde, quel rischioso passaggio scoperto, dove la tromba deve svettare sull'orchestra, è l'unica pecca in un'esecuzione tecnicamente inappuntabile, compatta nella resa complessiva e forte di un'articolazione organica, plastica, e di una coordinazione disinvolta pur a fronte di un numero di elementi insolito e imponente.
Viotti apre l'immenso dramma della Sesta scandendo i ribattuti degli archi gravi con una lentezza e una pesantezza che a primo impatto stupiscono: sembra di ascoltare un'incisione di Sir John Barbirolli, appena un poco più veloce; ma lo spirito è quello: più che una marcia, un meccanismo che fatica a mettersi in moto – pachidermico sarebbe dire troppo, più un prepararsi da cave ipogee a far esplodere la prima eruzione – ma che una volta avviato si attesta su un'agogica di più riconoscibile prassi. D'effetto, a questo proposito, risulta la scelta di disattendere l'indicazione mahleriana di tornare al Tempo I dove indicato, al termine dell'esposizione, prima di ritornellarla come previsto (è capitato di ascoltarla senza ripetizione), ma poco dopo, dando con questo ritenuto di nuovo l'idea di un nastro che si riavvolge, anche qui a fatica. Lo sviluppo procede poi rivelando sorprese e preziosismi timbrici messi in luce dalla lettura attenta di una partitura sovente fitta di molte linee egualmente importanti, tra le quali scegliere diventa obbligatorio, sacrificandone alcune. Talvolta, in effetti, certi passaggi suonano quasi di necessità con-fusi; ma sono compensati da altri dove la chiarezza espositiva si fa apprezzabile. Il cuore della sezione è poi il già ricordato intermezzo “montano”' con arpe e celesta (forse un po' troppo presenti: si sarebbe voluta una sonorità più eterea) che punteggiano un discorso rarefatto, su impalpabili tremoli di archi divisi, veramente magistrali. E, restando sugli archi, anche la loro zampata che fa tornare alla realtà, con quel deciso cambio d'armonia che vira in Si maggiore, sa di organismo che si muove a fatica, come se non volesse lasciare le alture evocate dai campanacci. Scelta direttoriale, anche qui, coerente con l'apertura, in luogo di altri che sferzano l'uditorio tranciando di netto la poesia sospesa dell'intermezzo. Ma da quel ritorno alla realtà il ritmo si serra, la tensione narrativa si alza, e alla riesposizione i La ribattuti del timpano che raddoppiano quelli degli archi vengono marcati quasi con sadismo. L'agogica però non si lascia travolgere dalla conclusione, e si mantiene sempre distaccata, inflessibile, sorda alla musica che sembrerebbe quasi chiedere un'accelerazione: ma l'indicazione mahleriana è un laconico a tempo: perché precipitare? L'impressione generale è quella di un movimento ben condotto, forse con mano un po' troppo statica nel complesso – anche lo “slancio” del “tema di Alma” non si avverte così vitale, sempre un po' frenato – ma ben fatto.
L'organismo ormai messo in moto pare inarrestabile, e l'abbrivio dell'illusoria conclusione in maggiore del primo movimento investe anche l'inizio dello Scherzo, che segue senza pause. E con ciò si dirime la vexata quæstio dell'ordine dei movimenti intermedi, previsti da Mahler come Scherzo-Andante fino alla stampa della prima edizione e dei programmi di sala per la prima esecuzione e all'ultimo invertiti, con ristampa delle successive edizioni con l'ordine Andante-Scherzo. Dopo la première, nelle uniche altre due volte in cui Mahler diresse la Sesta (Monaco, 08/11/1906; Vienna, 04/01/1907), egli stesso seguì l'ordine Andante-Scherzo. Ma quando nel 1919 Wilhelm Mengelberg contattò Alma per chiedere delucidazioni, uno scarno telegramma comunicò: «Prima Scherzo, poi Andante, affettuosamente Alma». In quest'ordine Mengelberg la eseguì ad Amsterdam nel 1920. Da quel momento, tale ordine diventò consuetudine (per una disamina più approfondita, si rimanda a Gastón Fournier-Facio in Tutto Mahler, Zecchini Editore, 2023). E in effetti, le somiglianze dei due attacchi dell'Allegro energico, ma non troppo e Scherzo, entrambe fortemente ritmate e in La minore, può far pensare a un “blocco” unico come quello costituito dai primi due movimenti della Quinta. Così facendo, si crea uno stacco quando dal La minore dello Scherzo si viene trasportati «in più spirabil aere» dal Mi bemolle maggiore dell'Andante, ed esso stesso si rapporta senza cesure con l'introduzione del Finale in Do minore, armonicamente relato: oltre a interporre un'oasi distensiva dopo le tensioni di Allegro e Scherzo e prima del lungo e lacerante Finale.
Lasciati alle spalle i – relativi – ormeggi dell'Allegro, sotto la bacchetta di Viotti lo Scherzo assume i contorni di una danza luciferina e allucinata. L'effetto è garantito dal non por tempo in mezzo dopo il primo tempo, come detto, e dal seguire un'agogica molto sostenuta, di sbrigliato andamento corrivo, anche se intelligentemente calibrato e saldamente scolpito quanto a legature e arcate melodiche. Il Pesante apposto da Mahler è interpretato qui alla luce dell'altra indicazione, pure mahleriana: heftig aber markig, violento ma energico. Indicazione apposta all'Allegro, ma valevole per Viotti anche e soprattutto per lo Scherzo. I rallentamenti dei due Trii si avvertono come cambi di agogica, ma non di febbrile agitazione sotto la pelle, che permane a serpeggiare tra le battute sghembe dell'Ältervisch, cioè “alla maniera antica”, dove la musica vorrebbe recuperare la grazia degli antichi minuetti ma senza riuscirci, appesantita da fosche folate nibelungiche, sprofondate nei gravi dell'orchestra e insinuanti come il tema di Fafner, dalle sfrontate acciaccature dei corni e dal continuo claudicare del ritmo con frequentissimi cambi di tempo da binario a ternario. Molto apprezzato il dettaglio del ritenuto a batt. 306 e della Luftpause fra batt. 306 e 307, che interrompe il flusso melodico spezzandogli il fiato. L'episodio, che raffigurerebbe «i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena», fa pensare a uno sbiadito ricordo in Super 8 di Maria Anna sulla spiaggia, anacronistico come il fatto, ripetiamo, che negli anni di composizione della Sesta la bimba fosse ancora viva; ma la contemporanea stesura dei Kindertotenlieder ha contribuito proprio qui ad alonare la Sesta di presagi funebri.
La distensione, anche per gli orchestrali, arriva tra lo Scherzo e l'Andante, dove una breve pausa permette alle orecchie di riposarsi e agli strumenti di ricorrere a una breve accordatura. L'Andante moderato si leva come un balsamo a lenire le staffilate dei primi due movimenti; ma, nonostante ci fossero state avvisaglie già da inizio concerto, emerge qui un tratto distintivo di tutta l'esecuzione: la cerebralità. Sarà l'aver seguito la Sinfonia sulla partitura, e averne ammirato più il dato tecnico, cosa che snatura un po' l'ascolto “di pancia” rendendolo appetibile solo agli addetti ai lavori (col rischio di ridurlo a un mero, per quanto miracoloso, gioco d'incastri); ma sulla lettura di Viotti pare aleggiare la prevalenza del lato intellettuale su quello emozionale. Siamo tutti d'accordo che la musica sia fondamentalmente onde sonore che si propagano, cicli di compressione e rarefazione di un fluido. Ma c'è dell'altro. E stranamente, stavolta l'Andante della Sesta non smuove corde diverse da quelle tecniche – per quanto affascinanti, ripeto – e quell'altro emerge con molta fatica. Il toccante secondo tema del corno inglese, ad esempio, è perfetto nella sua tornitura, ma non arriva. Ci pensano le folate decadenti degli archi a far prendere quota a questo altro, in passaggi che in certi casi sembrano richiamare i movimenti lenti di Rachmaninov.
L'Andante si rastrema fino a chiudersi sui sospiri spezzati dei violoncelli. E quasi subito ci si risveglia dal sogno con l'impasto diafano, ceruleo di archi, arpa e celesta, su quella corda pizzicata che vibra sul Do grave di violoncelli e contrabbassi che doveva piacere molto a Mahler, per reimpiegarla più tardi all'inizio dell'Abschied. Sarebbe improbo a questo punto seguire da presso la mezz'ora buona del Finale, che combina forma-sonata, rondò e variazioni in un'architettura di complessa originalità. Ma qui, purtroppo, l'intellettualità della visione d'insieme si coniuga con un particolare che ha, anche qui, percorso sotterraneamente tutta l'esecuzione: la scarsità di colori. Nessuno nega che il Finale della Sesta sia impegnativo anche a livello di ascolto; ma proprio per questo si sarebbe dovuto ricorrere a un'attenzione ancora maggiore alle variazioni dinamiche, e interpretare i piano e i forte in maniera anche più attenta, sapendo bene che in Mahler queste indicazioni sono da relativizzare e contestualizzare sempre , dato l'organico che chiede. Più che negli altri movimenti, si avverte poco il contrasto tra piani sonori, e il tutto si assesta su un livello poco variato di intensità medio-forte, con le opportune esplosioni dei tutti ma con una cura meno levigata dei piani . E questo spiace, perché conferma l'idea di un Mahler fracassone a un ascolto ancora vergine – stante che la Sesta non è assolutamente un buon modo di iniziare gli ascolti mahleriani. Ma c'è un punto che occorre sottolineare. Ed è la terza martellata, con cui si chiude il cerchio del discorso. Ben assestata la prima. Dirompente la seconda, rinforzata com'è da timpani, grancassa, piatti e tamtam. Appena accennata la terza, calata con un'intensità insolitamente svigorita. Ma se è vero che quel terzo colpo è stato «prima introdotto e poi eliminato, ma mai definitivamente cancellato dalla memoria» (S. Sablich) e che, su testimonianze dirette, all'eroe sinfonico sarebbe bastato niente più che un colpetto per recidere le ultime energie vitali ormai prossime al lumicino, così eseguito, potremmo dire in mezzoforte, e benché arbitrariamente reintrodotto da Viotti, quel terzo colpo potrebbe avere un senso. In quest'ottica, anche con più senso di quanto ne avesse quando lo eseguì Bernstein coi Wiener Philarmoniker, dove piombava con spiccata violenza. Bernstein stesso, del resto, cambiò idea a distanza di anni, quando nel 1998 incidendo con la New York Philarmonic Orchestra tornò a due colpi. D'altro canto, l'edizione Eulenburg riporta, oltre a diversi raddoppi di fiati e archi, anche il terzo colpo a stampa. Cosa che non fa l'edizione critica Kahnt. Ma il discorso sarebbe lungo…
Christian Speranza
22/1/2025