La Nona secondo Treviño
Tredici febbraio 2025: centoquarantaduesimo anniversario della morte di Wagner. Quando nel 1883 pochi giorni dopo la notizia da Venezia giunse a Vienna, il suo più fervente adoratore, Anton Bruckner, terminò l'Adagio della sua Settima Sinfonia, in quei giorni in via di composizione, con una Trauermusik dedicata proprio al «Meister aller Meister». E, a volerlo trovare, c'è un sottile fil rouge che in modo quasi cabalistico unisce questa luttuosa ricorrenza al concerto eseguito presso l'auditorium Arturo Toscanini di Torino nella stessa data. Nello struggimento, nella Sehnsucht in certi punti tutta tristaniana che informa la sua Nona Sinfonia, Gustav Mahler si dimostra erede e al tempo stesso innovatore di una tradizione che proprio in Wagner radica il gusto del cromatismo estremo e del tendere allo spasimo il discorso melodico, fino a un totale disconoscimento, o meglio forse fino alla totale reinterpretazione in chiave personale della forma, feticcio desueto che nel sinfonismo tardo-ottocentesco si era ormai svuotato di contenuto, passando proprio per gli exempla di quel Bruckner che fu sì insegnante di Mahler al Conservatorio, ma di cui Mahler non fu mai – parole sue – allievo.
Basti vedere il primo movimento: non un Allegro, ma un Andante comodo, in cui, sì, ancora si rinviene un bitematismo, peraltro ridotto talvolta quasi a impulso ritmico; ma dopo l'esposizione ci si inoltra in uno sviluppo che da una parte divaga come una fantasia sinfonica, dall'altra non approda a una ricapitolazione vera e propria, e termina sfrangiandosi in nubi di aerea vaporosità: proprio come l'Adagio finale, in cui il carattere “tristaniano” serve a sostenere uno straziante addio alla vita da parte di un Mahler al quale, dopo la Nona , sarebbe rimasto meno di un anno di vita. Due movimenti lenti che ne incorniciano altri due più mossi: una struttura che, collaudata nella Nona, Mahler riprenderà, espandendola, nella Decima. In mezzo, ciò che resta dell'antico Scherzo, qui declinato nelle forme più ingentilite di un Ländler, e un Rondò-Burleske di marcata violenza espressiva, che già preludia a certe graffianti ironie di un altro grande sinfonista del Novecento: Šostakovic (si ascolti in parallelo l'Allegro della Decima…). Ma in questo accostamento apparentemente casuale, quasi afinalistico, di movimenti, stupisce l'organicità del disegno di fondo, considerando la rapidità con cui la Nona prese forma nel raccoglimento dobbiacense dell'estate 1909 (verrà ultimata ai primi del 1910): un secondo movimento che accenna al terzo, il terzo che accenna al quarto, il quarto che di sfuggita riprende il primo. E poi, ben nascosti, riferimenti ad alcune Sinfonie precedenti, soltanto dei tocchi, come una retrospettiva sfocata, conscia dell'impossibilità di uno sguardo sul futuro: l'uso dei legni che richiama la Quarta, un trattamento di arpa e celli in terzine di quinte vuote diretti discendenti dell'Abschied, un cenno ai Kindertotenlieder, l'attacco del terzo movimento che pare una distorsione dello Scherzo della Quinta e che contiene una cellula melodica dell'Ottava; un Finale lento come quello della Terza, sebbene molto diverso… e quella parolina, Schattenhaft, che a metà primo movimento richiama lo Scherzo della Settima…
Attualmente direttore musicale dell'Orchestra Nazionale Basca e consulente artistico della Malmö Symphony Orchestra, Robert Treviño prosegue col ciclo delle Sinfonie mahleriane alla testa dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), di cui è direttore ospite principale, confermando, dopo la Quinta, la Sesta e la Decima delle stagioni scorse, le impressioni positive registrate in passato e attestandosi come direttore mahleriano di spessore. D'altro canto, dal punto di vista esecutivo può disporre di una compagine orchestrale di stoffa pregevolissima, che, tolta qualche trascurabile imprecisione dei fiati – trombe e fagotti, ma si tratta di inezie – suona da cima a fondo una Nona da manuale. Basta un'occhiata alla partitura, anche da chiusa, per accorgersi che, a parità grosso modo di durata, le pagine sono di meno rispetto per esempio alle tre Sinfonie strumentali del periodo centrale. Questo perché, pur chiedendo al solito un'orchestra enorme, Mahler qui la usa con parsimonia, pochi strumenti alla volta: e questo, se da un lato esalta il lato puntillistico della scrittura di un autore spesso liquidato come elefantiaco e megalomane, dall'altro espone l'orchestra a rischiosi passaggi scoperti, sovente solistici: ma che quando sono sorretti dalla perizia qui riscontrata, sono una delizia per le orecchie. Gli encomiabili assoli di Alessandro Milani (primo violino), Luca Ranieri (prima viola) e Luca Magariello (primo violoncello), così come quelli di Alexander Grandal (primo fagotto), Bruno Giudice (controfagotto: nella Decima ne impiegherà ben due, ma in funzione di solista lo troviamo soltanto qui, all'inizio dell'Adagio finale) e Salvatore Passalacqua (clarinetto basso) vanno di pari passo ad esempio con la precisione del dialogo tra primo corno (Francesco Mattioli) e primo flauto (Giampaolo Pretto; I mov., batt. 381-390), e sono solo alcune delle preziosità di questa esecuzione. Si aggiungano poi, presi nel loro insieme, archi straordinariamente espressivi e fiati dagli impasti timbrici ben amalgamati, e si avrà un'idea della qualità dell'OSN.

Qualità che è messa al servizio di un direttore che sa come disporne, traendo da essa una Nona in cui il dato tecnico è prevalente, dove accenti, sforzati e dinamiche vengono rispettati quasi alla lettera, nei limiti delle possibilità di una scrittura che quando è fitta si fa densa, intricata di linee sovrapposte e idealmente di pari importanza, e quando non lo è si fa solipsistica divagazione di disarmante intimità, e disattenderne le indicazioni sarebbe un delitto. Sotto questo aspetto la Nona è apparentemente più “facile” da dirigere di altre sorelle del corpus : nondimeno, richiede una non comune raffinatezza nel renderne le nuance più delicate, di cui abbonda. La Nona colpisce più per ciò che tace che per ciò che dice: e in questo Trevi ño offre due magistrali lezioni di stile nel primo e nel quarto movimento, il primo che preme sul pedale del romanticismo puro, con un suono sovente ambrato, caldo, avvolgente, dove gli scoppi orchestrali sono smorzati in nome di una sobrietà che si fa sovrana, il quarto che, pur non arrivando, in nome della predetta sobrietà, a vertici di lacerante decadentismo, né all'estrema dilatazione agogica del Sehr langsam (Molto lento), toccata giudizio di chi scrive solo da Eschenbach con l'Orchestre de Paris, consegna al pubblico un Finale di pregnanza già piuttosto notevole, caratterizzato da grande chiarezza espositiva delle linee principali e buona evidenziazione della cellula ricorrente “a gruppetto”, lontana parente del tema di Isotta morente, che permea pressoché tutto il movimento – un po' meno in evidenza sono le variazioni contrappuntistiche cui va incontro, soprattutto quelle per augmentationem, forse un retaggio dell'ultima frequentazione mahleriana di Bach, di cui aveva trascritto alcune pagine per i programmi dei concerti americani.
La stessa sobrietà che guida la mano di Trevi ño nei movimenti estremi la guida nel Rondò-Burleske, dove l'aggressività, direi la violenza esplosiva del movimento, in particolare la sua conclusione, viene parzialmente disinnescata: la visione di una danza indiavolata che, un po' come al termine del Sacre, lascia a terra la danzatrice esanime dopo un'intensificazione progressiva e infine parossistica di ritmo e velocità, si smorza in una lettura sì frenetica ma controllata e attentamente scandita. Singolare anche la condotta del Ländler, dove prevale l'aspetto burattinesco, un po' artificiale e parodistico, in quella scaletta ascendente di viole e fagotti, invero un poco corriva, e nel primo episodio che segue; si spiglia meglio poi nel Poco più mosso subito, dove non è solo l'agogica a contrastare con l'impronta meccanica dell'incipit, ma anche lo spirito che lo innerva, più sciolto, più disinvolto.
Ma ciò che al termine della serata il pubblico piuttosto numeroso, che comunque non fa registrare il tutto esaurito, si porta a casa, è l'inesprimibile dolcezza delle ultime note dell'Adagio, quella poesia dell'ineffabile che fa dare ragione a Karajan quando scriveva che è «musica di un altro mondo», che «arriva dall'eternità». Curioso che Mahler, al culmine del suo potere di direttore dell'Hofoper, con un matrimonio felice e due bimbe sgambettanti per casa abbia concepito un monstrum di terrificante potenza come la Sesta e che, alle soglie della sua «perdita intera», per dirla con Edgardo, col matrimonio ormai distrutto dal tradimento di Alma, i traballanti rapporti col Metropolitan per via di Toscanini e il cuore ormai minato dall'endocardite, abbia potuto concepire un movimento di tale rassegnata serenità: uno stato d'animo cui già anni prima aveva dato voce con le parole di Rückert in quel magnifico Lied che è Ich bin der Welt abhanden gekommen, ma che qui, senza testo, nell'incorporea levità dell'orchestra che pian piano rastrema il discorso sino a parlare per frammenti, a balbettare l'indicibile, riesce a essere ancora più espressivo. Ed espressivo lo è nella lettura di Trevi ño con l'OSN, al punto da richiamare Bernstein: «È terrificante, ti paralizza»: dopo quell'ultima, sospiratissima, morente e slargata terzina delle viole, poco prima che tutto s'inabissi nel silenzio – un gesto che, al clarinetto, concludeva la Nachtmusik II della Settima, ma in tutt'altro contesto di positività –, gli applausi che hanno iniziato a fioccare, benché meritatissimi, sono sembrati quasi irriverenti.
Christian Speranza
19/2/2025
Le foto del servizio sono di Sergio Bertani.