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Barcellona

Le tre regine donizettiane in una

Fare in un solo concerto le tre scene finali di quella che si chiama – in modo poco felice – la trilogia delle regine di Donizetti e uscirsene a testa alta costituisce certamente una sfida che poche cantanti (forse qualcuna) sono in grado di accettare. È quanto è successo con Sondra Radvanovsky, una delle beniamine del pubblico del Liceu. In quanto tale la recensione potrebbe finire qui, aggiungendo al massimo ch'era un vero piacere vedere la sala piena (si fa per dire, continuano le misure restrittive) e il pubblico (la maggior parte almeno) in stato di adorazione.

Ma queste poche righe sono poche e quindi forza è riempire un po' la pagina con qualche altra considerazione. Ad esempio, che un programma di questo tipo, per di più senza pause aldilà dei cinque minuti fra una scena e l'altra (in tutto un'ora e tre quarti più o meno) non è solo un rischio molto alto per il soprano in questione, ma risente anche dell'uniformità della costruzione – coro, scena, recitativo, aria, tempo di mezzo con qualche altro personaggio e cabaletta finale con coro. Se per di più a ciascuna delle scene precede la relativa sinfonia non solo soffre la teatralità dei singoli frammenti (in particolare i due ultimi) e quel che risulta un climax di altissimo voltaggio drammatico nelle tre opere prese separatamente può diventare alquanto monotono anche se c'è, come in questo caso, una specie di messinscena con tre ricchissimi vestiti per la protagonista mentre coro e altri solisti si presentano sobriamente in nero o simile e delle luci che a parte un tocco di colore sullo sfondo della scena risultano piuttosto cupe, per la regia di Rafael Villalobos. Il coro si mostrava a buon livello, istruito come al solito da Conxita García, e anche l'orchestra sotto la direzione di Riccardo Frizza – ma in un momento di Maria Stuarda si presentavano alla mente fantasmi di un passato non troppo lontano, così come il maestro passava da una lettura molto buona della ‘sinfonia' di Anna Bolena a una buona della Stuarda per poi concludere con una poco interessante e molto chiassosa di Roberto Devereux.

Tra i solisti spiccava Gemma Coma-Alabert soprattutto nelle frasi della Sara del Devereux. Marc Sala era meglio come Percy che come Leicester e gli interventi degli altri si limitavano a qualche frase anche se Carles Pachón aveva modo di farsi udire come Cecil e Nottingham (non come Harvey, che di solito canta un basso).

Il soprano ha quella voce enorme e una musicalità tutta sua che non esclude qualche momento calante o crescente, qualche oscillazione nell'intonazione, quei gravi artificiali (davvero poco belli soprattutto come Maria ed Elisabetta) e qualche accento espressivo poco felice, in particolare come Elisabetta anche se perfino zoppicava. Sul gusto di alcune variazioni dipendono, appunto, dal gusto di interprete e pubblico. Dei bei piani e un acuto che nella nota finale della Stuarda soprattutto (ma anche nel Devereux) si avvicinava pericolosamente al grido. Ma almeno ci ha risparmiato quegli orrendi colpi di glottide che un tempo si scambiavano per intensità drammatica.

Jorge Binaghi

10/5/2021

La foto del servizio è di Paco Amate.