«Considerate che questo è stato»
La legge del 20 luglio 2000, nº211, istituisce in Italia il “giorno della memoria” in ricordo della Shoah. Significativamente essa ricorre il 27 gennaio, giorno in cui, nel 1945, le truppe dell'Armata Rossa entrarono ad Auschwitz e liberarono i superstiti. Durante questa ricorrenza «sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione» (art.2).
L'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) ha preso alla lettera queste parole programmando, per il decimo concerto della stagione, giovedì 26 gennaio 2023 – di cui si riferisce – e venerdì 27, quello che Milan Kundera ha definito il «più grande monumento che la musica abbia mai dedicato all'Olocausto»: A survivor from Warsaw, oratorio per voce recitante, coro maschile e orchestra Op.46 di Arnold Schönberg. Un narratore descrive, in prima persona e in inglese (lingua scelta in vista della prima esecuzione ad Albuquerque, Nuovo Messico, 4 novembre 1948), un episodio di vita nel ghetto di Varsavia: il testo, che si avvale anche di interventi in tedesco e del finale in ebraico, è stato steso da Schönberg stesso sulla base del racconto di un sopravvissuto e scritto quasi di getto fra l'11 e il 23 agosto 1947. La trama è tanto semplice quanto cruda, pensando che sono fatti realmente accaduti. Un gruppo di ebrei del ghetto viene svegliato prima dell'alba dalle grida di un sergente nazista. Sulla soglia di casa vengono percossi dal sergente e dai soldati, finché il narratore cade semisvenuto. Quasi incosciente, riesce però a sentire il sergente ordinare ai soldati di contare quanti mandare alle camere a gas. Ma è lì che – miracolosamente, viene da dire – chi è ancora in grado di farlo si mette a cantare lo Shemà, l'inno di lode a Dio equivalente al Credo cristiano. Come sia sopravvissuto il narratore non è dato sapere, né che fine abbiano fatto i coraggiosi cantori, benché si possa immaginare: come in un racconto di Carver, nei sette minuti del Survivor viene fissato un fotogramma della pellicola, non la pellicola intera. Il che, nella estrema concisione dell'opera e nel senso di smarrimento che lascia, paralizza ogni reazione, tanto è agghiacciante: «Al termine della prima esecuzione, il pubblico non applaudì rimanendo in un silenzio pieno di turbamento» (Schönberg?).
Presta la voce al narratore Francesco Micheli, dal dicembre 2014 direttore artistico del festival Donizetti di Bergamo, coadiuvato dal Coro Maghini istruito da Claudio Chiavazza, tutti sotto la bacchetta di Fabio Luisi, direttore emerito dell'OSN: orchestra che ha, tra l'altro, un rapporto speciale col Survivor, avendolo eseguito per la prima volta in Italia il 20 ottobre 1961.
Se dell'esecuzione strumentale non si possono che spendere parole di elogio, avendo saputo l'OSN riversare nelle poche pagine schönberghiane sonorità aspre, taglienti, espressioniste, vero equivalente sonoro della barbarie nazista – e il fatto che arrivino da un compositore ebreo rafforza vieppiù l'atto di denuncia che esse sottendono –, altrettanto non si può dire del narratore, che, al netto di una pronuncia né perfettamente british, né da Goethe Institut, carica o meglio sovraccarica l'esposizione del testo, giungendo, in quello in tedesco, a somigliare all'SS volutamente caricaturale della Vita è bella quando Benigni traduce a beneficio del figlio le “regole del gioco”. Possiamo stare certi che quel sergente non avrà “esortato gentilmente” gli ebrei a uscire di casa; ma nell'eccesso di buone intenzioni di Micheli nel volerlo rendere brutale, ne esce un ritratto che, anziché immergere lo spettatore nella vividezza dell'azione, lo allontana, perché la sua prestazione, risultando troppo artefatta per suonare naturale, attira più attenzione sulla recitazione che sul testo. Come una buona regia d'opera scompare dietro musica, libretto e cantanti, dando però a tutto un senso, così una recitazione è tanto migliore quanto non si nota che ci sia. Ma gli esiti registici di Micheli, senza andar troppo indietro con la memoria e soffermandoci all'ultimo Ajo nell'imbarazzo, bergamasco, di cui si è dato conto per questa testata, potevano ben dar da supporre un suo risvolto un po' troppo protagonistico del lato attoriale. Positivo il giudizio sul Coro Maghini, che declama in modo affermativo e convinto il difficile testo ebraico (difficile da traslitterare, ancor più da pronunciare), purtroppo non riuscendo a imporsi sempre a dovere sul volume dell'orchestra.
A seguire, il programma contempla nella seconda parte la Sinfonia nº7 in mi minore di Gustav Mahler. Non si afferra la logica che la lega al Survivor, tranne forse il fatto che Mahler nacque ebreo e si convertì successivamente al Cattolicesimo per poter dirigere a Vienna – l'antisemitismo già serpeggiando nella capitale austriaca; ma, al di là della pertinenza, il concerto permette di ripassare la sinfonia meno eseguita del corpus mahleriano – alla Rai mancava dal 2012 –, la più variegata – cinque movimenti apparentemente slegati per senso – e per questo la più sfuggente, la più enigmatica. Mahler scrisse le due Nachtmusik, che avrebbero costituito il secondo e il quarto movimento, nel pieno della composizione della Sesta , durante l'estate del 1904. L'estate successiva sarebbero arrivati anche il terzo, il quinto e, per ultimo, il primo movimento, che sulla pagina conclusiva reca la scritta: «Maiernigg 15 August 1905 / Septima finita». Si tratta, assieme alla Sesta , della sinfonia più complessa, dal punto di vista di strumentazione e polifonia, il culmine della triade centrale della produzione sinfonica mahleriana (a parte l'Ottava, ma solo perché là ci sono anche coro e solisti). Questa stratificazione di materiale sonoro porta inevitabilmente a rendere ardua la sua resa esecutiva. È quanto accade a Luisi, che incappa in una riuscita non sempre ottimale del polimorfico capolavoro mahleriano, pur presentando luci e ombre con prevalenza di quelle su queste. Ma se la prima impressione è quella che conta, il pianissimo con cui si apre la sinfonia non è un pianissimo: già troppo forte si propone l'accompagnamento, e perde di misteriosità (ma ripeto: provate voi a far suonare quasi una ventina di fiati e una quarantina di archi pianissimo: e tutto questo solo per accompagnare un corno baritono, in questo caso rimpiazzato da un eufonio, che per giunta stecca leggermente…). Il dettato conserva nel complesso una limpidezza accettabile, considerando, ripeto, l'estrema densità e complessità della partitura, ma talvolta si intorbida, offuscata qua e là da un'attenuazione della tensione del discorso globale. Il tempo moderato, che all'occorrenza viene sottoposto a opportune quanto ben misurate accelerazioni e decelerazioni, e conserva un taglio narrativo “comodo”: ma a fine esecuzione resta l'impressione di un mastodonte che aneli alla leggerezza e venga intralciato dalla sua stessa mole.
Molto meglio il secondo movimento, la Nachtmusik I. Meglio in tutto. Quell'impressione di pesantezza viene convertita in agilità, grazie a una conduzione liscia, spigliata, che talvolta assume la grazia di un congegno a orologeria. Si ricade però nelle linee spezzate e poco fluide dello Scherzo, il terzo movimento, in un discorso ancora troppo appesantito che di Schattenhaft, cioè di “come un'ombra”, come prescrive Mahler, cioè inafferrabile, indefinibile, inquietante, ha poco. Fortunatamente si risale di livello con la distesa Nachtmusik II (distesa fino a un certo punto: ché incrinazioni armoniche e melodiche ne minano dall'interno la serenità), scorrevole, plastica, aggraziata, mercé l'uso insolito di chitarra e mandolino, attentamente calibrati col resto dell'orchestra, e degli interventi solisti di Roberto Ranfaldi, primo violino, che sovente però faticano a emergere. Bene anche per il ricamo finale del clarinetto, che anticipa già, senza ancora averne i connotati di struggente abbandono, le note estreme della Nona.
Da ultimo, il Rondò-Finale, che serba inattese quanto sgradite asprezze alle trombe nel registro acuto e minime ma presenti diacronie in quasi tutte le sezioni, uniche note di demerito per un'orchestra altrimenti perfettamente funzionante, a cui però Luisi conferisce una corrività che, non sempre ma più di una volta, sottrae pomposità soprattutto al ritornello. Il brano è costruito grosso modo come un rondò settecentesco, ritornello-divertimento-ritornello-divertimento, ecc., con la differenza qui che il ritornello aumenta ogni volta di grandiosità per mezzo soprattutto di un'orchestrazione sempre crescente (arrivando a comprendere campane e tam tam). Questo lo apparenta a quei Finali di sinfonia alla Bruckner (verbigrazia la Quarta) dove a dei crescendo quasi parossistici segue un'improvviso calo di tensione, per poi ricominciare a salire e così via. Un andamento che, se non saldamente dominato, stanca, e che qui ha messo alla prova il pubblico e lo scrivente. Complice anche un uso insistito delle percussioni (e non serve caricarle, poiché già molto presenti!), questo Rondò-Finale ha espresso solo parzialmente il suo ambiguo significato di festosità e di vuotezza, andando piuttosto a colmare, col suo esagerato clangore, un horror vacui sonoro. Peccato. Si poteva far meglio.
Christian Speranza
1/2/2023
La foto del servizio è di PiùLuce.
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