Dialoghi con il corpo
Dal soffitto, una luce delinea uno spazio, perimetra due corpi. Figura 1 e Figura 2 si guardano, si osservano, si contrappongono. E se Figura 1 si distende sul palcoscenico, Figura 2 lo attraversa a grandi falcate, quasi fosse une salle des pas perdus di memorie che lentamente riaffiorano e si materializzano. L'una in bianco, l'altra in nero, sono guidati da una voce fuori campo, un ordine perentorio che le costringe a prendere coscienza di alcune parti del corpo – fronte, mento, collo, anca, petto, testa, bocca, mani – che si muovono, si arcuano, si contraggono, si distendono. Fino a formare un gesto, le braccia contratte verso l'alto, in forma di un aracnide che lambisce l'infinito. Comincia così Body and Soul, creazione mondiale della coreografa canadese Crystal Pite, al suo secondo titolo in scena tra gli ori e i velluti di Palais Garnier, dopo un Seasons' Canon che, nel 2016, le è valso il Benois de la Danse, e dove adesso il pubblico l'accoglie con attenzione e – alla fine – con entusiasmo. Originaria della Columbia Britannica, un cursus honorum blasonato a Francoforte con William Forsythe quindi come artista associata al Nederlands Dans Theather I di Amsterdam e al Sadler's Wells di Londra, Pite è artista inquieta, proteiforme, ma lucidamente aperta al dialogo.
Nei tre atti della sua ultima creazione, i linguaggi si sovrappongono, i segni s'infittiscono, gli intrecci si addensano. La voce di Marina Hands – che peraltro la coreografa non comprende nel suo limpido francese, e diventa dunque mero sfondo di suggestioni sonore – mette in relazione la parola con il gesto; i danzatori dapprima sono soltanto due, poi diventano massa mobile e compatta, perfino minacciosa; e l'orizzonte acustico di Owen Belton assomiglia all'andamento di una mareggiata, che ogni tanto rilascia elementi, frammenti, ricordi. Tra questi emergono frantumi dei Preludi op. 28 di Chopin, schegge di uno spartito dalla deflagrante carica sperimentale, frutto di una scrittura apparentemente improvvisativa che lascia spazio ai moti dell'animo, al confronto tra due esseri umani. Altre onde si compongono sulla scena, flussi umani che rimandano confronti, forse scontri: magari Maiorca, l'isola dove il compositore polacco visse la sua tormentata liaison con George Sand, una storia per figure, una storia di incontri. I dialoghi dei pas de deux si contrappongono alle scene di massa, le partenze possibili agli approdi impossibili: quanti viaggi, quanti corpi, quanti gesti si accumulano in agglomerati umani, concrezioni di sentimenti, drammi di migranti. Rispondendo al richiamo ossessivo della voce fuori campo, Figura 1 e Figura 2 ripetono gli stessi gesti ma li abitano in maniera diversa: non più gruppo, sono rimasti solo in due, il primo è morto, l'altra lo accoglie tra le braccia, moderna pietà laica devastata dal dolore, nello slancio tragico di Muriel Zusperreguy e Alessio Carbone.
Nel secondo atto lo spazio è definitivamente lasciato a un'antologia dei Preludi chopiniani, che risuonano nell'interpretazione leggendaria di Martha Argerich. Il Prologo – sul n. 1, in do maggiore – permette di scoprire l'ultimo, possibile dialogo: quello con l'intero teatro, con un palcoscenico che Jay Gower Taylor, immaginifico creatore di spazi scenici oltre che compagno della Pite, lascia volutamente deserto, evidenziando l'immensità sconvolgente dell'ambiente. Le luci di Tom Visser, ora sontuosamente dorate, ora più morbidamente ambrate, ora misteriosamente argentate, delineano il confine della scena, dove il dialogo s'infittisce in una serie di duetti, terzetti e quartetti, fino all'ensemble che, sul n. 14 in mi bemolle minore, costituisce una sorta di nec plus ultra. A partire dal quale la partecipazione corale si dematerializza, si sfalda, lasciando il posto al travolgente n. 20, in do minore, capeggiato da Hugo Marchand, che per l'ultima volta riprende l'apertura alare delle braccia, facendo di questo metafisico port de bras il segno distintivo degli Icaro che siamo, angeli precipitati dalla luce della sapienza; quindi al vorticoso ultimo numero, in re minore, autentico vortice dantesco di anime che si riconoscono e si identificano, incandescente nell'interpretazione di Ludmila Pagliero e François Alu.
Più ardita – e inizialmente finanche ermetica – è la lettura del terzo pannello, ambientato in una sorta di rilucente caverna, creata a partire da materiale umile, pareti di carta da imballaggio che, opportunamente illuminate, sembrano quelle di un'autentica miniera d'oro. È una caverna platonica, è un ritorno allo stato di natura che precede il consorzio civile? La domanda si stempera all'apparire di una colonia di creature dai costumi in lattice nero, forse insetti o batteri che riannodano le fila con gli interrogativi iniziali, con il comportamento di una massa che ora è diventato schiera compatta e omologata, sciame ronzante, inarrestabile formicolio collettivo. Spetta a Takeru Coste, dapprima vestito da primate, quindi ulteriormente addobbato con pantaloni di paillettes dorate, guidare il gruppo in Body and Soul, esplosione rock che la musicista newyorkese Teddy Geiger ha appositamente scritto per l'occasione. L'atmosfera disco del finale è giubilatoria, traboccante di entusiasmo ma al tempo stesso interrogativa: sarà questo il futuro dell'umanità?
Giuseppe Montemagno
4/11/2019
Le foto del servizio sono di Julien Benhamou.
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