RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Non la solita Lucia

Rinviata per due stagioni a causa della pandemia (avrebbe dovuto inaugurare la 2020/21), Lucia di Lammermoor approda finalmente al Piermarini. Non la solita Lucia, però, almeno non quella che secoli di tradizione ci hanno messo nelle orecchie. O, per meglio dire, non del tutto la solita. Avvalendosi di un approfondito lavoro di ricerca, Roger Parker e Gabriele Dotto hanno pubblicato nel 2021 una nuova edizione critica dell'opera, che ripristina i tagli di tradizione, apporta alcune varianti in orchestra e soprattutto modifica in parte la linea vocale di Lucia, come di altri personaggi, cercando di tornare alle intenzioni prime di Donizetti, quelle che l'hanno condotto a far trionfare il suo capolavoro al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835.

Vale la pena, data l'eccezionalità dell'evento, riportare quanto Parker specifica: «[…] ci sono quattro passaggi nella partitura autografa che furono chiaramente cancellati da Donizetti in una fase molto tarda (cioè a orchestrazione compiuta) […]: – quattro misure nel cantabile di Lucia Regnava nel silenzio ; – sette misure nell'introduzione orchestrale del terzo atto, nel duetto Edgardo-Enrico; – quattordici misure nel coro che precede l'ingresso di Lucia nel terzo atto; – otto misure di Lucia giusto prima della sua cabaletta nella scena della pazzia. Dal momento che la qualità musicale di questi passaggi cancellati è eccellente, l'attuale produzione della Scala ha – per la prima volta in assoluto – deciso di includerli […]». A questo si aggiungano almeno due interventi sulla strumentazione, i più evidenti, almeno: l'assolo che precede l'entrata in scena di Lucia al secondo atto, eseguito dal clarinetto anziché dall'oboe (e affidato all'oboe ancora nell'edizione Dover 1992) e l'impiego dell'armonica a bicchieri, o glassharmonika, al posto del flauto traverso nella scena della pazzia, in grado di evocare al meglio lo stato di straniamento mentale di Lucia. Da quando è stato scoperto che l'”armonico” – così lo chiama Donizetti – rappresentava la prima scelta e l'intenzione originale dell'autore, e che soltanto una contingenza non permise a questa versione di affermarsi bensì a quella col flauto (lo strumentista, Domenico Pezzi, ebbe un contenzioso con la direzione del teatro e lasciò l'incarico già a prove fatte, onde Donizetti dovette ripiegare su quanto di più affine gli venne in mente), le esecuzioni con tale strumento hanno iniziato a circolare, seppure molto limitatamente. Nell'ambito di tale operazione di ripristino si assiste anche al recupero, in questa versione, della cadenza originale nella scena della pazzia, più breve di quella solitamente eseguita col flauto e scritta probabilmente da Mathilde Marchesi, insegnante di canto del soprano australiano Nellie Melba, verso la fine dell'Ottocento.

Operazione dunque non solo filologica, ma quasi archeologica, per risalire alle intenzioni primigenie di Donizetti, e che si situa in una corrente che Riccardo Chailly sta portando avanti ormai da diversi anni, offrendo al pubblico le versioni dei maggiori lavori operistici eseguite alla loro prime rappresentazioni, spesso misconosciute perché sforbiciate e ripensate dagli autori stessi a volte già dalla prima replica.

La produzione scaligera si avvale della regia di Yannis Kokkos, che firma anche le scene e i costumi, tutto di stampo contemporaneo (anni Venti del XX secolo, dichiara il regista, ma abiti e arredi non tornano). Pur tendente al minimalismo, c'è tutto quel che ci deve essere: l'impianto ricalca nelle linee essenziali i luoghi dell'opera, concedendosi qualche libertà che non nuoce al suo svolgimento. Nel complesso non stona ma neppure entusiasma. Ad apertura di sipario si intuisce un'ambientazione boschiva con silhouette di alberi e statue che raffigurano la caccia al cervo – la muta di cani che accerchiano il cervo è anche presente al terzo atto, dipinta dietro a Lucia in preda ormai alle visioni della pazzia, forse simbolo della sua mente braccata o di Lucia stessa uccisa dalle ragioni politiche e familiari. Sul davanti, una semplice scala bianca stilizza l'atrio del castello dei Ravenswood per la prima parte dell'atto. La grande statua di donna sdraiata e coperta da un velo, come il Cristo di Sammartini (significativamente a Napoli), trasfigura invece la fonte del parco, nella seconda parte: la posizione della vittima trafitta da un avo di Edgardo ed ivi annegata ricorda quella dell'Ofelia di Rossetti, e basta un attimo a collegare velo-flutti e morte per follia d'amore. Col secondo atto, le stanze del castello diventano qualcosa di vagamente simile a una chiesa moderna, con un altare/leggio ligneo dalle linee spezzate molto semplici e vasi di fiori bianchi, sedie nere e tre pannelli rossi scalati. A inizio terzo atto, un video di nuvole minacciose (a cura di Eric Duranteau), illuminate da potenti flash da sopra il palco reale (luci a cura di Vinicio Cheli, molto d'effetto, sempre discrete e al servizio dell'azione in tutto il suo svolgimento), accompagnato da tuoni registrati, introduce alla torre di Wolferag, i cui scarsi arredi sono coperti da lenzuola bianche, come proprietà messe in vendita o pignorate. La scena della pazzia, con lo sfondo già ricordato, si svolge su una grande scalinata bianca a tutta scena, fiancheggiata da specchi fumé. Con l'aggiunta di statue funerarie e due lapidi affossate, segno di abbandono e degrado, la scalinata resta per la scena finale dell'opera, nel cimitero dei Ravenswood.

Escludendo l'abito bianco di Lucia (con una sopravveste blu alla prima scena), versatile per adattarsi alla scena di nozze con l'aggiunta di un velo e per far risaltare il sangue di Arturo alla fine, i costumi vertono su un nero quasi onnipresente, una mise che accumuna il completo e la cravatta di Enrico e di tutti gli invitati al matrimonio, il soprabito di Edgardo, il vestito di Raimondo, la giacca in pelle di Normanno. Qualche perplessità suscitano le lanterne, meno credibili di eventuali torce, e la pistola con cui Edgardo minaccia gli invitati: quando viene disarmato, la sostiene con due dita prima di farla cadere – un gesto del genere avrebbe potuto far partire un colpo accidentale, nella realtà, come all'inizio della Forza verdiana –: si consideri che una pistola di quel tipo, scarica, pesa un chilo scarso… Il fatto, poi, che per suicidarsi, dopo la pistola estragga anche il pugnale, è sembrato eccessivo, nonostante la generale tinta noir.

Direzione e cast si attestano su un altissimo livello interpretativo, corroborati dall'Orchestra e dal Coro della Casa, entrambi in forma smagliante, quest'ultimo istruito attentamente da Alberto Malazzi. Chailly ha cura di seguire l'azione scenica mantenendo con essa un rapporto attento e fluido, e marca espressivamente i mutamenti d'umore e disposizione dei personaggi corrispondendo con altrettante sottolineature in orchestra: ne consegue una concertazione puntuale ed efficace e, se talora alcuni tempi vengono staccati più lenti della norma, ciò è finalizzato a una resa di maggiore tensione drammatica.

Dulcis in fundo, le voci. Boris Pinkhasovich dà vita a un Enrico convincente, di adeguato peso vocale, buon volume e centro solido, e si fa apprezzare anche per la sua interpretazione di attore, dal palese nervosismo che con cui intima a Lucia di firmare il contratto nuziale, alla collera con cui le si avventa contro in Se tradirmi tu potrai, giungendo alla violenza fisica di abbrancarla per i polsi. Corretto il Raimondo del sempre valido Carlo Lepore, l'autorevolezza del cui personaggio viene sottomessa al messaggio che sembra portare quasi controvoglia, facendone un ingranaggio della perdita di Lucia. Giorgio Misseri è un Normanno un poco ingolato e che incontra qualche difficoltà negli acuti, ma che domina adeguatamente il ruolo in grazia di un'ottima tecnica. Molto bene per l'Arturo di Leonardo Cortellazzi, dallo spessore vocale più pronunciato e che offre un'ottima prestazione pur nel ruolo ristretto che ricopre. Ben fatto anche per la Alisa di Valentina Pluzhnikova, allieva dell'Accademia Teatro alla Scala. Nel parlare dell'Edgardo di Juan Diego Flórez, si consideri la spiccata vocazione rossiniana di questo e la vocalità tenorile lirico-drammatica di quello. Se ne ricavano luci e ombre per un'interpretazione di indiscutibile valore ma di un personaggio che non sembra fatto per lui. Si apprezzano, e si vogliono qui lodare, l'emissione pulita del suono, il canto sfumato, le raffinatezze timbriche di Verranno a te sull'aure e Tu che a Dio spiegasti l'ali, dove si può soltanto appuntare un trasporto raffrenato dall'attenzione per l'aspetto tecnico, ineccepibile ma che tempera il pathos dell'esecuzione, come pure si elogiano lo squillo e la tenuta degli acuti in Orrida è questa notte e in altri consimili passaggi. A difettare è lo spessore della voce, un peso ancora insufficiente per poter stare a pari nel duetto con Enrico, per sovrastare pienamente la numerosa orchestra (le vaste dimensioni della sala, poi, non aiutano di certo, e ciò sia a sua discolpa) o per conferire la giusta drammaticità al personaggio.

E poi c'è lei. Lisette Oropesa nel ruolo di Lucia. Meravigliosa. Una Lisette che, almeno per la recita di domenica 23 aprile 2023, di cui si dice, mantiene quanto promette fin dall'entrata in scena grazie a un carisma intenso, fatto di espressioni, movenze e gestualità da vera artista del palcoscenico. Le indubbie doti vocali hanno almeno due punti di forza: la facilità nell'emissione degli acuti, dove ci si stupisce di non rilevare alcuna traccia di sforzo – qualche puntatura di tradizione viene infatti mantenuta, non tutte e non quelle sovracute “alla Sutherland”, ma meglio evitate che malfatte; quanto alle tonalità, di cui si è sentito parlare, se siano state rispettate o meno secondo il volere di Donizetti, solo una disamina con la partitura sotto mano potrebbe por fine alla diatriba –, e la limpidezza, freschezza e morbidezza del timbro, cui si aggiunge una notevole propensione per le agilità. Si unisca il tutto a un physique du rôle e si avrà una Lucia dalle sembianze languide e arrendevoli, ma che trilla come un usignolo e manda in visibilio una sala gremita e letteralmente, e comprensibilmente, osannante.

Christian Speranza

26/4/2023
Le foto del servizio sono di Brescia/Amisano.