RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

What a Rake!

Alla presenza del maestro Mehta, presente fra il pubblico della “sua” sala, domenica 26 marzo 2023 è andata in scena la quinta e ultima replica del Rake's progress al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. L'opera, con musica di Igor' Stravinskij e libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman (Venezia, Teatro La Fenice, 11/09/1951), si inserisce nel Festival di Carnevale del Maggio, quest'anno dedicato alla figura di Faust e a Goethe: un festival che, nel suo cartellone, ha evitato di essere banale e prevedibile, orientandosi a invece verso una pregevole originalità. Se dal lato sinfonico è stata eseguita la poco frequentata Faust-Symphonie di Liszt, da quello lirico sono state programmate, oltre al Rake, anche La finta semplice, il Doktor Faust di Busoni, La traviata e Carmen, precedute da Schauspiel Faust, spettacolo di Venti Lucenti. Denominatore comune di questi titoli è un personaggio in qualche modo condotto da un altro fuori dalla retta via, come Faust da Mefistofele. Ma nel Rake c'è di più: all'immediata rilettura di Tom e Nick come alter ego di traviato e traviatore, si affianca l'intento filantropico come mezzo di riscatto morale, nel Faust con le grandi opere per l'umanità, nel Rake con la macchina che trasforma i sassi in pane. I parallelismi possono essere fatti a vari livelli, ma quel che più rende vivo il Rake, al netto dei numerosi rimandi musicali ed extramusicali, è che può essere attualizzato e rivisitato (cum grano salis …) senza perdere di forza espressiva. Per questo il nuovo allestimento andato in scena al Maggio ha convinto pienamente pur non aderendo in tutte le sue parti ai desiderata del libretto. L'analisi non può prescindere dal considerarlo per sommi capi in ogni sua parte.

Atto I, scena I. Come in un'immagine che pian piano si deforma, sorta di ritratto di Dorian Gray, l'inizio segue fedelmente le indicazioni librettistiche. I costumi di Mr. Trulove e di Tom Rakewell sono in stile XVIII secolo; la scena è arcadica, un Eden che ben presto si perderà, verdi giardini, una balaustra bianca e, proiettate sullo sfondo, le statue di Venere e Apollo del Belvedere, anticipazioni degli sviluppi futuri. Entra in scena Nick Shadow, vestito rosso in fantasia scozzese. Le misure che prende per finta sul corpo di Tom fanno capire che il vecchio zio che gli lascia l'eredità era un sarto o un mercante di stoffe, e la valigetta nera che porta conterrà soldi e documenti. Scena II. Il bordello di Mother Goose, con l'insegna sfarfallante al neon Mother Love – poiché è sulla parola love che Tom si ferma a cantare la sua malinconia –, è una sinfonia di soubrette in rosso e viola, con sullo sfondo una giostra di cavallini che gira. Gira e non si ferma come il tempo, che Nick invece arresta per Tom facendo oscillare a pendolo un orologio da taschino (altro riferimento a Faust: dire all'attimo di fermarsi). Mother Goose è la personificazione del cattivo gusto, perfetta nella sua crinolina nera altissima adorna di palline multicolori. Scena III. Anne, significativamente biancovestita dall'inizio alla fine, indossa un soprabito e un tricorno uguali a quelli di Tom e va a cercarlo. Personalmente ci vedo, nell'indossare gli stessi abiti (habitus, abitudine), un tentativo di immedesimarsi in Tom per ripercorrere, pur non condividendoli, i suoi passi e salvarlo, mentre dietro ad Anne una Luna enorme campeggia nella notte solcata da pipistrelli. Atto II, scena I. Esattamente come nel libretto, siamo nel soggiorno della casa di Tom, ma qui è tutto spoglio, asettico, pareti bianche, un condizionatore da terra sotto una finestra che dà su una metropoli grigia. La vita che conduce lo annoia e lo rattrista. «Su, Natura, la caccia è aperta»: e compare, proiettata e animata, l'immagine di un cinghiale (Adone finisce ucciso da un cinghiale inviato dal geloso Apollo…). Al suo desiderio di essere felice, Nick propone di svincolarsi da doveri e desideri: «[…] the giddy multitude are driven […]», e il soggiorno diventa per un attimo un taxi guidato a folle velocità da Nick, mentre Tom si aggrappa alla poltrona per non esserne sbalzato. Baba la Turca viene fatta vedere da Nick a Tom attraverso foto sul cellulare, e un loro selfie inizia a far partire sullo sfondo la conta dei likes a cuore tipici di Instagram, mentre i due se la ridono di gusto all'idea che Tom possa sposare Baba. Scena II (impossibile non notare il calco dall'atto III della Carmen). Il patetico assolo di tromba è suonato da un accattone sul palco, che porge ad Anne il cappello per l'offerta. Anne arriva in una luce malcerta, l'accattone si ritira. Poco dopo, ecco la processione di corrieri che portano pacchetti e pacchettini, rivisitazione aderentissima dei servitori di Tom. L'ultimo pacco, il più voluminoso, rimpiazza la portantina di Baba, che, quando esce e si mostra, non ha la barba, come previsto, ma in compenso è calva, occhiali da sole, calze a rete e body: anche qui, intelligente ripensamento di che cos'è il “fenomeno da baraccone”, e può esserlo anche una donna senza capelli, cui non siamo abituati, che “fa strano” se non lavoriamo in Oncologia, in questo caso anche spersonificata come un manichino senza parrucca, un oggetto da vetrina, manichino attorno a cui i corrieri di prima si accalcano scattando foto, mentre lei, Baba, sorta di diva alla Lady Gaga, manda baci e si pavoneggia sulla musica cerimoniosa di uno Stravinskij che gioca a fare Händel. Scena III. Come da libretto, il soggiorno di Tom è ora ingombro di scatole e scatoloni, che Baba calpesta con rumore di vetri infranti. E a furia di parlare, elencando i doni degli ammiratori e facendo una diretta col cellulare, sì che, inquadratasi, viene prontamente ripresa e proiettata sullo sfondo, esaurisce le energie e si accascia a terra, anziché essere incappucciata da Tom che, sfinito, si mette a dormire: ed ecco che il sogno della macchina del pane, anch'esso proiettato sullo sfondo, prende corpo in un carretto da gelati guidato da Shadow, della ditta Shaddy's. Non è proprio pane, quel che viene prodotto inserendo i sassi: sono coni gelato, ma va bene lo stesso. Atto III, scena I. Fallita la produzione su scala industriale delle macchine del pane, tutti i beni di Tom sono stati messi all'asta. Qui i beni diventano i coristi, impacchettati in imballi verdi e pronti, grazie a una mimica efficace, a diventare animali impagliati che Sellem il battitore, in uno sgargiante completo lilla, aggiudica picchiandosi il martelletto sulla tuba. Anche Baba viene imballata come un lotto d'asta, non più in body e calze a rete ma in una tutina di lattine grigio. Scena II. La scena del cimitero, con evidente rimando al Don Giovanni mozartiano – cui si rifà non solo anche la scena ultima, quella della morale coi personaggi alla ribalta, ma anche il rapporto tra Tom e Nick, «una sorta di Leporello sulfureo e luciferino» (Franco Pulcini, dal programma di sala) –, è resa con straordinaria economia di mezzi, palcoscenico vuoto e in penombra, Nick ora con un'inquietante camicia nera plissettata che ricorda l'iconografia vampiresca; d'altro canto, se «La morte è il nulla», nulla deve esserci sul palco. Scena III. Anche il manicomio di Bedlam è reso con efficace semplicità, con un lungo tavolo in primo piano e una camerata da ospedale fredda e deserta che si perde sullo sfondo. I pazienti, Tom incluso, sono vestiti con camicioni bianchi e cuffie beige, in uno squallore reso visibile e palpabile. E nella scena ultima non poteva mancare, pur nel turbinio scoppiettante della musica, il riferimento al memento mori dei quadri seicenteschi, fissato là in alto, sopra le teste dei personaggi.

Questo magnifico e intelligente lavoro, dove, come si è visto, nulla viene lasciato al caso e tutto ha un buon motivo per esserci, simbolico o no che sia, nasce dalla regia di Frederic Wake-Walker, coadiuvato dalle scene e dai costumi di Anna Jones e dalle luci di Charlotte Burton, cui si aggiunge l'accurato e fondamentale apporto di video, collage, animazioni e immagini di Ergo Phizmiz, fondamentale perché, giova rammentarlo, l'ispirazione per quest'opera arrivò a Stravinskij nel 1947 da una mostra di stampe settecentesche di William Hogarth, quindi sostanzialmente da un input visivo, e non, come suole, letterario o teatrale: giusto quindi che la parte visiva, fenomenica e in certo modo spettacolare abbia un peso decisivo sulla riuscita dello spettacolo, che qui si colloca, per intuizioni, abbondanza e appropriatezza e di idee, in posizione di assoluto rilievo, anche grazie a Lottie Bowater per la collaborazione nelle illustrazioni e a Elfyn Round per i modelli 3D e le animazioni.

Il cast funziona, e funziona magnificamente, trovando in ciascun interprete doti vocali e attoriali convincenti. Si parte dalla bella voce grave e profonda del Mr. Trulove di James Platt, dalla maliziosa Mother Goose di Marie-Claude Chappuis e dal Sellem di Christian Collia, forse unico impercettibile neo della compagnia per una prestazione vocalmente convincente ma scenicamente poco istrionica, distaccata dal ruolo (ma si tratta, non se ne adonti, di lievità). Si sale di livello con la Baba di Adriana Di Paola, contralto di solida voce dotata di calde sfumature ambrate e di un non comune magnetismo sul palcoscenico. Ben fatto anche per Matteo Torcaso (Guardiano del Manicomio) e per le anonime Voci di Giovanni Mazzei, Costanza Antunica, Antonia Fino e Nadia Pirazzini che intervengono nella scena dell'asta.

Corona il cast la triade dei personaggi principali. Il Tom Rakewell di Matthew Swensen si distingue per voce chiara, spianata, di buon squillo e duttilità, un timbro alla Don Ottavio, per intenderci, perfetto per una parte che si rifà volutamente al Settecento. Valida anche la sua prestazione scenica, con espressioni impagabili, come quelle nella scena dell'interrogazione nel bordello di Mother Goose, dove viene chiamato a cantare di fronte a un microfono, con tutto l'impaccio e l'imbarazzo di qualcuno non a suo agio, o la mimica di smarrita fissità allo sproloquiare di Baba, comica come quella di Gabriele Abis nei suoi sketch con Stella Falchi, due tiktoker che si propongono simpaticamente come i nuovi Sandra e Raimondo, o ancora nella straniante scena del manicomio, dove Swensen si muove spaesato; l'arrivo di Anne, per la quale Tom appronta il trono di Venere ponendo una sedia sul tavolo, trova forse un ennesimo riferimento nelle visite di Clara Schumann al marito ormai demente.

Il tatuaggio del picche sul dorso della mano è il tocco di classe del Nick Shadow di Vito Priante: gliela si vorrebbe sinceramente stringere, quella mano – a Priante, non a Shadow! – per complimentarsi per ogni aspetto della sua prestazione: voce calda, avvolgente e timbrata, capacità di usarla e dosarla, estrema immedesimazione nel personaggio, dall'innocente apparire (da ombra cinese, va detto, poco prima che di persona) al sempre più insidiante procedere verso la fine, superlativo in ogni suo gesto e in ogni suo fraseggio.

Giganteggia su tutti la Anne Trulove di Sara Blanch. Ascoltata a gennaio nel piccolo ruolo della “Lobgesang” di Mendelssohn (Torino, auditorium Arturo Toscanini, 16/01/2023), se ne erano intuite le capacità ma non le si aveva potute apprezzare: qui invece, Blanch dimostra di essere “artista” nel vero senso della parola, capace di emozionare sinceramente e di commuovere, pur in una musica, quella di Stravinskij, quasi sempre più intellettuale che passionale (viene da chiedersi che cosa possa realizzare nei panni di una Violetta…): la sua voce limpida e smeraldina ha un lirismo intenso, che conquista: tutta la scena III dell'atto I, a lei dedicata, riesce grazie a lei ad essere la più catturante di tutta l'opera, con prolungati e meritatissimi applausi.

Degno di menzione il Coro della Casa, diretto da Lorenzo Fratini, sempre valente nel suo interpretare di volta in volta i ruoli differenti cui è chiamato.

Opera che, forse per le modeste richieste strumentali o la assenza di grandi scene di massa, appare semplice: e che invece si svela complessissima, già solo a partire dai numerosi stili fusi e rilavorati da Stravinskij – il clavicembalo in un'opera degli anni Cinquanta del Novecento? Ebbene sì, e con effetti grotteschi e surreali –: per renderla al meglio, come è stato fatto qui, ci voleva la mano di un Daniele Gatti, qui particolarmente felice nel secondare i cantanti, nel vellutare il suono e nel reinventarlo ad ogni cambio di atmosfera. Un lavoro di concertazione che informa tutti gli aspetti visti fin qui, li rende vivi, reali e dà loro il senso complessivo, restituendolo intatto e arricchito a un pubblico che risponde con entusiasmo convinto.

Christian Speranza

31/3/2023

Le foto del servizio sono di Michele Monasta.