RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Rossini, oltre il silenzio

Il silenzio di Rossini. Nozione tanto abusata – quanto ormai ampiamente superata – della storiografia ottocentesca, ritorna prepotentemente alla memoria in questo periodo di isolamento, quando i teatri sono diventati vuote casse di risonanza di musiche non destinate al pubblico, luoghi di socialità costretti a una calma irreale, fantasmatica, quasi inconcepibile. Ma come il silenzio di Rossini fu gravido di creazioni musicali, così il Rossini Opera Festival di Pesaro, costretto l'estate scorsa a una programmazione ‘alternativa', si era aggiornato per un'appendice autunnale, alla quale non ha voluto rinunciare – per rispetto delle maestranze, dei lavoratori, ma anche del pubblico che, confinato a casa, ha potuto e potrà comunque fruire degli eventi in streaming e poi in differita.

Certo è singolare ‘ritornare' al Teatro Rossini, rimasto com'era dopo La cambiale di matrimonio estiva – e dunque senza le poltrone della platea – avvolto solo da luci dorate e azzurrine, muto e deserto speco in cui timidamente s'avanza il pianista Alessandro Marangoni, che pure non rinuncia alla ritualità performativa e s'inchina a un pubblico assente, prima di sedere alla tastiera. Voce tra le più autorevoli dell'ultima generazione di pianisti italiani, il pianista novarese si è ritagliato un ruolo significativo nella riscoperta di autori certo liminari ma non certo minimi: con il più noto Muzio Clementi figurano infatti tra i suoi interessi di interprete anche Nino Rota, Mario Castelnuovo-Tedesco e Victor de Sabata, oltre ai Péchés de vieillesse di Gioachino Rossini, consegnati al disco nella prima integrale con l'aggiunta di alcune rarità, talora inedite. Era, dunque, l'artista giusto al posto giusto: per sottrarre il ROF e il Teatro Rossini al silenzio di questi mesi, ma anche per ricordare come un Festival destinato a un operista debba esplorarne l'integralità dell'opera, anche percorrendo itinerari meno battuti.

Presentato con una scrittura brillante e accattivante, il programma mette in luce le tendenze sperimentali e gli aspetti innovativi della scrittura di un musicista che amava definirsi «un pianista di quarta classe», certo impossibilitato a competere con i grandi virtuosi che affollavano l'arengo parigino di metà Ottocento, ma capace comunque di valorizzare le potenzialità di uno strumento che aveva subito importanti modifiche strutturali, segnatamente grazie all'invenzione del doppio scappamento, la meccanica perfezionata da Sébastien Érard. La locandina dà spazio a questi aspetti, ma certo non elude una vena creativa segnata da un'inarrivabile senso dell'umorismo, che è possibile percepire sin dai titoli – alcuni decisamente esilaranti. Si comincia dunque con un Prélude inoffensif, di cui Marangoni esalta tanto la cantabilità spianata, d'impronta chopiniana, quanto il tributo lisztiano – nel tema che le due mani si spartiscono nel registro centrale, nelle fioriture brillanti in quello acuto. L'esecuzione si fa apprezzare per la capacità di non esasperare i toni, di assecondare l'uno e l'altro aspetto con leggerezza, lasciando emergere il carattere anodino del componimento. Più brillante è la successiva Petite polka chinoise, anche questa nel segno di un pianismo liberamente ispirato ai recenti successi di Chopin, ma in cui non manca il ghigno beffardo di abbellimenti – eseguiti strettissimi, strappati, affilati e taglienti – che accentuano il ricorso alle scale pentatoniche, di sapore esotico.

Une caresse à ma femme – dall'Album pour les enfants dégourdis – conta forse tra le gemme dell'intera raccolta: per il carattere affettuoso del tema iniziale, che sembra sollevare le cortine sulla domesticità del Pesarese con Olympe Pélissier, sua seconda consorte; ma anche per l'improvviso cicaleccio, ai limiti dell'alterco, che ne vivacizza il movimento centrale. Non appartiene ai Péchés, invece, un Thême et variations di rarissimo ascolto. Marangoni perfettamente coglie non soltanto il carattere meditativo – e fin quasi brahmsiano – dello spunto melodico iniziale, ma soprattutto il climax espressivo del ciclo di variations de bravoure, fino all'ultima, che sembra richiamare il sinfonismo pianistico schumanniano. Si ritorna quindi al sesto volume dei Péchés con una deliziosa Barcarole, genere principe tra i morceaux favoris del salotto parigino: qui meno meditativo di quanto si possa immaginare, e che il pianista connota con fare interrogativo e ironico, con il tema che si sbriciola e si elettrizza – fino a stemperarsi e sublimarsi nel finale.

Si deve all'acribia di Reto Müller, ricercatore tra i più ferrati in ambito rossiniano, il ritrovamento di Un rien, un foglio d'album di appena diciannove battute del 1861, per l'occasione proposto in prima esecuzione moderna con attenzione al clima di raccoglimento, suggerito dal pezzo. Vorticosa agilità e impalpabile levità caratterizzano la lettura della Tarantelle pur sang (avec traversée de la procession), brano d'impronta descrittiva in cui la danza partenopea per ben due volte viene interrotta dal suono delle campane che annunciano il passaggio della processione, accompagnata da un rigoroso corale. Delizioso è l'impertinente riemergere della tarantella – che non può non ricordare quella, ben più celebre, che figura nelle Soirées musicales – fino a un travolgente finale, frenetico e incalzante, che progressivamente s'ispessisce nelle sonorità e si espande lungo tutto l'arco della tastiera.

Un petit train de plaisir suggella il breve, ma pertinente percorso antologico: con impassibilità brechtiana, Marangoni condisce una pregevole, spigliata esecuzione enunciando anche le didascalie del brano, che racconta un'escursione in treno – mezzo aborrito dal musicista: «non mi beccheranno mai su questa trappola!» a un certo punto esclama – tra frenate improvvise e galanterie dei viaggiatori, fino al «terribile deragliamento» che causa morti e feriti, destinati a precipitare all'inferno o ascendere in paradiso… Quasi uno Steve Reich ante litteram, con i suoi Different trains Rossini restituisce un panorama antropologico che culmina nel «dolore acuto degli eredi», pagina di esplosiva corrosività offenbachiana. Tutto «molto più che naïf » ma vero, come bombardano gli ultimi accordi, squassante detonazione di una risata che sommergerà il mondo.

Giuseppe Montemagno

19/11/2020