RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

E il cunto va

“Ora lu sai cu sugnu e cu era, dimmi cu si e di unni veni, cu picca paroli e ccu lentu parlari”. Dichiarazione d'intenti lucida e senz'appello. Di poche chiacchiere, come gli abitanti di Argo, città che notoriamente “non ama i discorsi lunghi”.

Ma la dichiarazione d'intenti è non certo e non solo da parte del “democratico” re degli Argivi, Pelasgo - che, dopo essersi sovranamente “qualificato”, domanda allo stuolo di straniere (le cinquanta figlie di Danao in fuga per evitare il matrimonio con gli odiosi cugini, i cinquanta figli di Egitto) chi siano e da dove provengano – ma è anche manifesto inequivocabile dell'intera proposta di Le Supplici di Eschilo che ha appena inaugurato - al Teatro greco di Siracusa con la regìa di Moni Ovadia e le musiche di Mario Incudine - il 51° Ciclo di Spettacoli classici dell'Istituto nazionale del Dramma antico.

“Cu picca paroli e cu lentu parlari”, infatti, queste Supplici (secondo allestimento nella storia dell'Inda che prima d'ora aveva conosciuto solo quello del 1982) hanno scelto come dominante la lingua siciliana (salvo qualche inserto in greco moderno, a firmare l'adattamento scenico sono Ovadia, Incudine e Pippo Kaballà). Hanno poi scelto il cunto – che, se da un canto è progenitore riconosciuto del téatron, il teatro è ontologicamente narrazione ma non solo, dall'altro rischia oggi d'essere formula frequentatissima al limite dell'inflazione. E, da ultimo ma tuttaltro che ultimo, Le Supplici hanno scelto il musical. Di forte, catturante sapore etnico, di preziosa confezione strumentale e vocale, d'ottima resa coreografica, ma pur sempre musical che, alla lunga, “alleggerisce” storie e Storia, con ottimismo naturale e prepotente romanticismo.

Incredibile a dirsi (o forse credibilissimo) nonostante il nostro presente mangi e vomiti tragedie tutto il giorno e tutti i giorni, sembra che anche per noi sia arrivato il tempo di cui Orwell diceva in 1984, epoca in cui la tragedia non “era” più possibile perché non più possibili “erano” i grandi sentimenti. Fatto sta che, qui ed ora, il linguaggio della tragodìa è qualcosa che ci appartiene così tanto da atterrirci, non lo “ricordiamo” e piuttosto che parlarlo in modo maldestro e sgangherato preferiamo ricorrere ad altri lingue che (ri)conosciamo meglio: il dramma borghese, l'horror, il musical. E sia. Basta che si tenga a mente che la Tragedia è altrove. E che qualunque riproposta conservi il grande merito di celebrarla, non di rado è conversione di un “rito” la cui gravità artistica e professionale non siamo più in grado di affrontare e di sostenere.

Tauta eipon, direbbero loro, i modernissimi antichi, non sono pochi i pregi della confezione di Le Supplici secondo Ovadia – dramma di Eschilo e tra i pochi drammi della collettività che il teatro ci abbia conservato e consegnato, tragedia assai più vicina al futuro che al passato. E in questo non c'è attualizzazione né ammiccamento che tenga, è stato tutto già scritto e bene fa, Moni Ovadia, che è anche interprete di Pelasgo, a riprendere Dario Fo che dice: Non faccio a tempo a creare qualcosa che i classici mi hanno già citato”.

Ora vi cuntu Le Supplici, allora. E, sic stantibus rebus, è assolutamente appropriato un cuntastorie (Mario Incudine, buona tenuta scenica e bel piglio affabulatorio) che, in bicicletta decorata da una sorta di piccoli “retablo” che sventolano a mo' di bandierine, attraversa la scena e, fuori dal testo (il riferimento resta l'autorevole traduzione di Guido Paduano) dà inizio al racconto. Difficile non riconoscervi l'incedere metrico del Grande Padre dei cuntisti, Mimmo Cuticchio (come non poche, nella trama musicale, sono le citazioni, in testa il tema della Barunissa di Carini) in un siciliano epico e cantabile, che sarà condiviso da Coro e protagonisti.

A lui, al cantastorie, spetta il filo del racconto ma anche la fune impietosa che trascina in scena lo stuolo delle disperate Danaidi, prima celate da costumi nerissimi (Elisa Savi) poi rivelate da caldi colori di foggia africana (nuance d'azzurro, invece, per gli Argivi, vesti prismatiche e ingombranti per i “barbari” Egizi).

La scena (Gianni Carluccio) è sobria e suggestiva nella sua porzione sabbiosa, che è quella prevalente, su cui torreggiano tronchi di divinità alla maniera delle sculture dell'Isola di Pasqua ed è qua e là cosparsa, la scena, da pezzi di stoffa, quasi sottili zattere di salvezza per le donne in fuga. In alto,a sinistra, i musici, necessari e talentuosi, tutti (Antonio Vasta a fisarmonica-zampogna, Antonio Putzu ai fiati, Manfredi Tumminello a chitarra-bouzouki, Giorgio Rizzo alle percussioni non senza la strepitosa voce-strumento di Faisal Taher, già Kunsertu e ottimo interlocutore di Dounia); sul fondo, la porta della città che alla fine sarà punteggiata da una luminaria in vago odore di festa di paese.

Dal cantastorie in avanti e indietro (sarà ancora lui, dopo l'invocazione del Coro “Viva l'accoglienza e ‘a libertà!”, a chiudere promettendo nuovi cunti tra memoria e futuro: “Si passu di ccà, datimi ascutu/ ca vi cuntu chiddu c'aja sin tutu”), ecco l'aspro conflitto interiore di Pelasgo (accogliere le fuggiasche per non incorrere nell'ira di Zeus o temere le rappresaglie degli Egizi e dunque nuove guerre per i suoi?), la lieta notizia della concessa ospitalità che Danao stesso porta alle sue figlie, il tremendo assalto dal mare, la preghiera delle “supplici” che implorano a Zeus la vittoria sui maschi.

Il cunto va.

E va benissimo nella performance di un Coro ben istruito sotto ogni aspetto: la mimesi, accorata e pregnante e la prestazione vocale specialmente, con mirabili intervalli di tonica-dominante-settima sostenuti con fluidità, leggerezza, intensità: l'effetto è innegabilmente coinvolgente. Tra loro, una Corifea le rappresenta ed interviene sempre a loro nome, è Donatella Finocchiaro che qui ritrova una consistenza attoriale finora ben evidente solo al cinema ma non altrettanto a teatro. Gran bella prova per Angelo Tosto-Danao, che in fondo è perfettamente a suo agio nella cifra di “cantattore” che gli è da sempre la più congeniale. Ostentatamente arrogante quanto basta l'Araldo degli Egizi (Marco Guerzoni) che schernisce la cavea in groppa ad un cavallo di legno un po' troppo proteiforme e un po' troppo fiabesco per completare a dovere l'effetto (relativamente) sorpresa dei “barbari” egizi a passo d'oca.

Più che Pelasgo, Moni Ovadia fa Moni Ovadia, da sempre battitore libero di buonsenso civile e “madre dignità”, cantore dotatissimo e disinvolto, dalla musica chassidica (a cui sembrano appena ammiccare le note che accompagnano il suo primo ingresso) a melodie segnatamente mediterranee.

E vissero felici e cuntenti.

E se il musical, da un canto, è un modo per fare la tragedia scansandone il peso, i dilemmi, le incertezze, le congetture drammaturgiche e drammatiche trovando (o credendo di trovare) certezze in tematiche che chiamiamo contemporanee ma che in realtà sono antichissime, dall'altro, fa della musica (e non della tragodìa) l'unica vera terra di democrazia, accogliente e sterminata. Senza confini, direbbe Ovadia.

Carmelita Celi

16/5/2015

Le foto del servizio sono di Maria Pia Ballarino.