RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A tutto Brahms

I concerti monografici incentrati su un solo autore permettono, meglio di altri, di analizzare una certa poetica, un certo linguaggio in particolare, e di scoprire fratellanze nascoste tra composizioni che normalmente si ascoltano isolate. Quando poi si tratta della Sinfonia n ° 2 in re maggiore Op. 73 e del Concerto per violino e orchestra in re maggiore Op. 77 di Johannes Brahms, nati a un anno l'una dall'altro – la prima nel 1877, il secondo nel 1878 – ed entrambi scritti durante i soggiorni estivi a Pörtschach am Wörther See, in Carinzia, si ha modo anche di isolare un certo periodo della produzione, un periodo, in questo caso, eccezionalmente fecondo per l'autore, le cui composizioni sono accomunate da una serenità forse in qualche modo ispirata dall'ambiente riposante in cui Brahms, da buon Sommerkomponist, come egli stesso si definiva, era uso scrivere.

Dopo i ripensamenti e la lunga gestazione (e, diciamolo pure, la paura del confronto sullo stesso genere che aveva reso Beethoven immortale) della Prima Sinfonia Op. 68, ultimata nel 1876, la Seconda nacque quasi di getto e con una gaiezza di contenuti che la resero diametralmente opposta alla sorella maggiore: quasi che, dopo essersi liberato del fardello di portare a termine quella prima creatura sinfonica, sulla quale si erano fatte pressanti le aspettative di tutto il mondo musicale colto tedesco, essa rappresentasse lo sdoganamento che inconsciamente Brahms aspettava per dar libero sfogo alle sue risorse di sinfonista.

Diverso il caso del Concerto, hapax legomenon nel catalogo brahmsiano. La dedica all'amico Joseph Joachim non fu solo un omaggio formale al primo interprete assoluto, ma anche un ringraziamento al professionista e all'amico che aveva fattivamente contribuito alla scrittura della parte solistica, che Brahms, nascendo pianista, non padroneggiava alla perfezione. «C'è una ragione per cui questo concerto debba portare il tuo nome, visto che sei più o meno responsabile della parte per violino»: così scriveva il compositore al violinista che, nel 1855, gli aveva fatto scoprire la bellezza del Concerto per violino Op. 61 di Beethoven, per un trentennio considerato un lavoro malriuscito e di cui Brahms (sempre sull'onda del confronto?) riprende la tonalità d'impianto, alcune logiche formali interne e l'ampio respiro sinfonico.

Il concerto di martedì 26 aprile 2016 della rassegna Lingottomusica, presso l'Auditorium Giovanni Agnelli di Torino, ha per l'appunto presentato questo programma, ospitando la Swedish Radio Symphony Orchestra (SRSO). Sul podio Daniel Harding, suo direttore musicale.

Ad aprire la serata, il Concerto per violino di Brahms ha avuto un'interprete d'eccezione: la giovane, e già affermatissima, Veronika Eberle, ventottenne violinista tedesca considerata uno dei talenti più promettenti degli ultimi anni, al punto da convincere la Nippon Music Foundation a metterle a disposizione il violino Stradivari “Dragonetti” (appartenuto, appunto, a Domenico Dragonetti, che, oltre ad essere un virtuoso del contrabbasso, era un collezionista di strumenti musicali e di altre opere d'arte) del 1700. Ma, oltre che per lo strumento sopraffino, la performance si è attestata su livelli eccellenti per le indiscutibili qualità della solista, che ha sfoggiato un suono costantemente controllato nell'intensità e nel vibrato, brillando soprattutto nei trilli, fittissimi, regolarissimi, quasi impercettibili, nei passaggi a corde triple (primo movimento) e nel fraseggio in pianissimo immediatamente susseguente alla cadenza. L'Adagio, con quella sua apertura agreste, serena, su un assolo d'oboe di penetrante dolcezza, in dialogo col fagotto, si potrebbe riassumere in un'espressione: la cantabilità avant tout, massime per il canto raccolto del violino, in grado letteralmente, sotto le dita della Eberle, di cullare l'anima. Carico di energia, per sommo contrasto, l'attacco del conclusivo Allegro giocoso, ma non troppo vivace, strutturato a rondò secondo la migliore tradizione, energia che si irradia lungo le nervature del movimento non mai disgiunta da una certa rustichezza tipicamente brahmsiana, di vaga ascendenza zigana, retaggio forse dell'apprendistato giovanile alla scuola di Ede Reményi e che sarà ancor più evidente nel Finale del Doppelkonzert per violino e violoncello Op. 102.

Harding chiede per il Concerto Op. 77 di Brahms un'orchestra piena a 16 violini primi, che, nonostante le dimensioni, sa evocare, sotto la sua bacchetta, un'atmosfera ora minacciosa, ora intimista, quest'ultima soprattutto nei passaggi a organico ridotto, nell'insieme duttile strumento atto ad accompagnare e viepiù a magnificare le evoluzioni della solista. I tempi adottati riposano nella cuna della tradizione più radicata e il taglio direzionale addita una lettura composta e appassionata assieme, che fa di “questo” Brahms, come del nostro coevo Carducci, «l'ultimo dei classici e l'ultimo dei romantici».

Convinti, soddisfatti e meritati gli applausi al termine del Concerto, in omaggio ai quali Veronika Eberle ha eseguito il secondo movimento (Tema con cinque variazioni) dalla Sonata per violino solo in re maggiore Op. 115 di Prokof'ev.

La serata è proseguita con la Seconda Sinfonia Op. 73, dando vita alla quale la SRSO, debitamente allargata a comprendere tromboni e tuba necessarî all'esecuzione, è incorsa in alcune lievi pecche – qualche asincronia nei corni, alcune emissioni non sempre limpide alle trombe – che non hanno però scalfito in maniera significativa l'ottima prestazione complessiva. Harding, che forse per brevità evita il ritornello dell'esposizione nel primo movimento, riprende l'impostazione classica del Concerto Op. 77 e offre della Sinfonia Op. 73 una lettura espressiva, anche se inizialmente non molto sbalzata: soprattutto nel primo movimento il controllo delle dinamiche delle varie sezioni dell'orchestra, che sovente tra archi e legni si scambiano il ruolo, potremmo dire approssimativamente di “melodia” e “accompagnamento”, non è sempre netto, il che porta ad un'omogeneizzazione dei piani sonori, talvolta gradevole, non sempre auspicabile. Ben condotto, invece, il querulo dialogo dei fiati e ben dosati i timpani nel secondo movimento, un Adagio non troppo che, nella sua isola felice e tonalmente distante di si maggiore, permette all'orchestra di sfoggiare il massimo della melodiosità, forse il maggior punto di contatto col Concerto Op. 77. Scorrevole e quasi pastorale il terzo, non il prevedibile Scherzo di classica ascendenza (ché in nessuna delle sue quattro sinfonie Brahms vi ricorre, inserendo piuttosto movimenti di diversa natura), del quale conserva solo il tempo ternario, quanto una serie di variazioni sempre più veloci su un tema quasi di minuetto segnato Allegretto grazioso (Quasi Andantino). Il finale, Allegro con spirito, è reso eccezionalmente brioso e conduce la sinfonia ad una chiusa luminosa.

Ma che cosa ci fa quella grancassa laggiù in fondo, se non rientra nell'organico né del Concerto, né della Sinfonia? Il sospetto che ci fosse qualcosa in serbo era nato già a inizio serata; e, dopo i calorosi applausi al termine del programma, il sospetto è diventato certezza: un encore orchestrale! La Danza slava Op. 72 n ° 3 in fa maggiore di Dvorák, una spumeggiante skocná ideale per congedare con allegria un pubblico già pienamente appagato e riconoscente.

Christian Speranza

2/5/2016

Le foto del servizio sono di Pasquale Juzzolino.