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La migrazione di Simplicius

In questi tempi bui, e politicamente ciechi, sarebbe interessante riaprire un dibattito intorno alla resistenza “alternativa” che può essere tentata da un artista o un intellettuale. Sotto tale profilo è interessante riscoprire la posizione di un compositore come Karl Amadeus Hartmann, che difendeva le ragioni di quanti, nella Germania nazista, cercavano di mantenersi estranei al regime pur rimanendo in patria, coniando così il concetto di “emigrazione interna”. La stessa condizione, tra gli scrittori, fu scelta da Frank Thiess: cosa che gli valse una vibrante polemica a distanza con Thomas Mann, quello sì emigrato davvero – e non solo “internamente” – davanti agli orrori hitleriani; anche se, a ben vedere, la posizione di tedesco dissidente coccolato dall'intellighenzia di quegli Stati Uniti in cui aveva trovato riparo assicurò a Mann, o ad altri prestigiosi transfughi come Schönberg e Weill, una posizione meno scomoda di quella in cui si collocarono Thiess e Hartmann.

Ritiratosi dalla vita musicale del suo paese, e potendo contare su un successo di stima all'estero che non si tradusse in autentica notorietà internazionale, Hartmann resta dunque uno dei compositori più fortemente etici e autenticamente politici del “secolo breve”. Ma al di là di tali meriti – diciamo così – storici, resta significativo che il più autorevole sdoganatore del suo magistero compositivo (ricco catalogo sinfonico, meno nutrita ma significativa produzione cameristica, un'occasionale incursione nel teatro musicale da cui tuttavia derivò il suo capolavoro) sia stato il maggior musicista tedesco della generazione successiva: giacché fu Hans Werner Henze che per primo parlò del Simplicius Simplicissimus di Hartmann come d'un caposaldo del Novecento.

Tratto da un classico immarcescibile della letteratura tedesca come l'omonimo romanzo picaresco di Grimmelshausen, Simplicius Simplicissimus nell'adattamento musicale di Hartmann (due stesure: la prima – Des Simplicius Simplicissimus Jugend – di formato più ristrettamente cameristico, composta a metà degli anni Trenta e rappresentata solo a guerra conclusa; l'altra, ampliata, del 1957) si limita a proporre tre episodi del libro: un po' come se un operista italiano mettesse in musica Pinocchio limitandosi ai capitoli di Mangiafuoco, dell'Osteria del Gambero Rosso e del Paese de balocchi. Il compositore focalizza dunque tre “momenti della gioventù di Simplicius” (le razzìe dei lanzichenecchi, il maieutico incontro con l'eremita, il turpe banchetto del governatore), lasciando che gli spettatori ricostruiscano da soli i passaggi mancanti e il non detto sia estrapolabile dalla memoria collettiva: complicità culturale impensabile per il pubblico italiano e possibilissima invece per l'audience austro-tedesca, come dimostra il successo di questa produzione a Innsbruck andata in scena non al Landestheater, ma nella minuscola sala Kammerspiele.

Tale struttura rapsodica consente a Hartmann una sorta di straniamento brechtiano, che colloca il suo Simplicius all'interno di quel “teatro epico” codificato dall'autore di Mutter Courage: dove, cioè, l'urgenza del messaggio politico si traduce in un approccio a distanza dell'interprete nei confronti del personaggio – una stilizzata evocazione, non un'immedesimazione – che sottrae lo spettatore al suo ruolo passivo, imponendogli una più elaborata recettività e, con essa, una “presa di coscienza”. Stando così le cose, non sarà azzardato definire il Simplicius Simplicissimus operistico (soprattutto nella sua originaria e più minimalista stesura, andata in scena a Innsbruck) come una sorta di Histoire du soldat alla Brecht: tale lo configurano la convivenza tra canto e parlato, l'organico cameristico e un parossismo ritmico non immemore di Stravinsky. Mentre l'impianto drammaturgico circolare (violenza del primo e massacro dell'ultimo quadro, intervallati da quel Bildungsroman che è il rapporto tra Simplicius e l'eremita) appare funzionale alla tesi politica: gli anni del nazismo – in cui nacque il lavoro – intesi quale epoca buia per la mera sopravvivenza, oltre che per i più elementari diritti democratici, e dunque messi a confronto con altri due momenti tenebrosi della storia tedesca come la guerra dei trent'anni (scena prima) e la rivolta contadina (scena terza). Episodi non sincronici, nella realtà storica, ma che Hartmann rende simultanei nell'ottica d'un tempo metastorico e reiterante.

In perfetta consonanza con tale assunto, la regista Eva-Maria Höckmayr opta per un allestimento in abiti moderni: ora livido (le montagne di cadaveri fatte da pupazzi ammonticchiati) ora visionario (le masse proletarie in anestetizzanti giacca e cravatta); con momenti di fulminante finzione teatrale, come il gregge di pecore incarnato da coristi belanti a quattro zampe; e una serie di commenti “didattici” scritti su una lavagna che sono la diretta filiazione dei cartelli nel teatro brechtiano. Ma soprattutto propone una lettura “al femminile” della Storia, raccontando così la guerra da chi la subisce, anziché farla: Simplicius perde i caratteri del soprano en travesti per assumere connotati autenticamente muliebri, ancorché in abbigliamento maschile; e la formidabile Marie Smolka (premio Opernwelt come miglior giovane artista lirico in Germania), scorrevole nel canto come un impeccabile soprano lirico-leggero e snodata in scena come un autentico saltimbanco, ne fa un incrocio tra il fool shakespeariano e il “puro folle” alla Parsifal, sempre mantenendo una propria stralunata femminilità. Analogamente anche il personaggio del Narratore – voce recitante che è forse il vero protagonista dell'opera – viene affidato alla bravissima attrice Eleonore Bürcher, costretta a sua volta in abiti maschili: altrettanto sbigottita, altrettanto catturante, altrettanto elastica nella voce e nel corpo, ma di molti anni più anziana. Dando così vita – la Smolka e la Bürcher – a una sorta di alfa e omega dell'osservatorio femminile, che amplia lo spettro dello scandaglio.

Meno convincente affidare allo stesso tenore, quasi fossero due facce d'una medesima ambigua medaglia, i ruoli dell'eremita (la cui stoica accettazione dello status quo sottintendeva in Hartmann un addentellato autobiografico) e del governatore (quintessenza della brutalità di ogni regime): Michael Heim – poderoso per volume, un po' scompaginato nell'emissione – appare a suo agio più nel secondo che nel primo personaggio. Gli altri cantanti, in linea con una scrittura vocale di mero supporto al “discorso” strumentale, sono maschere piuttosto che caratteri: Oliver Sailer nella doppia parte del contadino e del sergente, Nikita Voronchenko in quella del capitano, Benjamin Chamandy come lanzichenecco. Ma almeno quest'ultimo lascia intuire una personalità timbrico-interpretativa da riascoltare in cimenti baritonali più impegnativi. Tutti ben sostenuti dalla bacchetta di Hansjörg Sofka, sensibile agli echi del passato – rende ben percepibili certi omaggi di Hartmann al barocco bachiano – non meno che al più ovvio modello di Stravinsky, e che restituisce con plasticità e sicurezza la fisionomia dell'opera-oratorio d'intaglio cameristico.

Paolo Patrizi

17/4/2024

La foto del servizio è di Birgit Gufler.