Tamerlano
alla Scala di Milano
Alla Scala torna in scena il repertorio barocco. Con piacere si riscoprono capolavori dell'opera sei-settecentesca che mancano da decenni nella sala del Piermanirini, o addirittura non sono mai stati rappresentati. È il caso di Tamerlano di Georg Friedrich Händel, proposto in coda alla stagione 2017-2018. Opera seria in tre atti, fu composta per la compagnia teatrale Royal Academy of Music di Londra, libretto in italiano di Nicola Francesco Haym, tratto da Il Tamerlano di Agostino Piovene insieme ad un altro libretto intitolato Bajazet sulla falsariga del Tamerlan, ou La Mort de Bajazet di Nicolas Pradon. Trattasi di una delle opere più importanti di Händel, che la scrisse nel brevissimo arco di venti giorni nel luglio del 1724, lo stesso anno in cui il compositore creò anche capolavori come Giulio Cesare e Rodelinda. Il ruolo di Bajazet, che a dispetto del titolo è il vero protagonista, fu uno dei più grandi ruoli per tenore in tutta l'opera lirica settecentesca, anzi fu il primo grande ruolo per un tenore in un'opera e Händel ebbe un intuito assoluto nel delineare il personaggio. L'opera è contrassegnata da un tono fosco e notevolmente tragico, culmina con il suicidio finale di Bajzet e anche il coro rappacificatore finale non cambia l'accento generale dello spartito. Nella drammaturgia di Tamerlano è peculiare la capacità di sviluppare lo scavo psicologico dei personaggi, sia per il peso politico che rappresentano sia, con maggiore incisività, per i legami affettivi fra loro. Tamerlano fu un imperatore tartaro che nel ‘400 sconfisse il sultano ottomano Bajazet, che tiene prigioniero nel suo palazzo. Il tartaro, che avrebbe dovuto sposare Irene, s'innamora di Asteria, figlia del prigioniero, la quale era già promessa sposa del principe Andronico. Dopo congiure fallite per eliminare Tamerlano, sarà il sacrificio di Bajazet a riportare una temporanea pace, con la rinuncia di Tamerlano alla figlia di questi, che potrà sposare l'amato, il ricongiungimento di Irene con il re tartaro e una sorta di finale che almeno nell'immediato si presenta lieto.
Molto bello e particolare lo spettacolo creato da Davide Livermore (debuttante alla Scala), autore anche delle scene in tandem con Giò Forma, con i costumi di Marianna Fracasso, le luci di Antonio Castro e i video di Videomakers D-Wok. Doveroso fare una precisazione, prendendo spunto dalle note di regia e focalizzando i temi e gli sviluppi che hanno ispirato il regista. Giustamente egli afferma che le vicende di re, imperatori, che sono citati nelle opere, soprattutto quelle del periodo barocco, hanno avuto un trattamento drammaturgico che quasi nulla aveva a che fare con precisi fondamenti storici. Si usavano le loro vicende umane, vere o raccontate dalla tradizione, per creare teatro. In effetti, anche Händel e il pubblico del King's Theatre non avevano per nulla interesse alle cronache del conflitto tartaro-ottomano. Interessava loro l'animo umano svelato e messo in scena, il pianto e il riso, e per tale intento si creavano spostamenti temporali, artifici drammaturgici, e “meravigliosa” finzione. Non possiamo che essere d'accordo, aggiungendo che al pubblico londinese importavano soprattutto le prodezze vocali di Francesco Borosini (primo Bjazet), dei castrati Andrea Pacini (Tamerlano) e Francesco Bernardi detto il Senesino (Andronico), del soprano Francesca Cuzzoni (Asteria) e del contralto Anna Vincenza Dotti (Irene).
Pertanto l'allestimento di Tamerlano che abbiamo visto alla Scala non era ambientato nel ‘400 bensì ai tempi della Rivoluzione Russa del 1917, e questo spostamento storico è un modo tipico dell'opera settecentesca, muovendo l'azione si muove l'anima degli interpreti. A perorare l'idea di Livermore dobbiamo considerare che nell'opera vi son tre dittatori con specificità diverse. Bajazet è un monarca che perde il potere prima che si alzi il sipario ed è accomunabile all'imprigionato Zar Nicola II dopo la rivoluzione. Andronico è un idealista, amato e riamato dalla figlia del suo sconfitto, e lui stesso è sempre in collisione con i propri sentimenti, e lo potremmo accostare a Lenin (o forse anche a Trotskij). Tamerlano è il classico dittatore spietato, talvolta violento e demenziale, ed è ovvio che la figura di riferimento sia Stalin. Leone, personaggio minore, ha le sembianze di Rasputin. Livermore è anche un cinefilo e seguendo questa chiave di lettura non poteva che non ispirarsi a Sergej Ejzenstein, il maestro russo che ha raccontato quel periodo della storia russa con maggior incisività attraverso l'arte cinematografica.
È indubbio che una tale lettura potrà far storcere il naso ai “puristi”, i quali avrebbero preferito una regia più tradizionale. Invece abbiamo assistito a uno spettacolo molto affascinante, di grande effetto teatrale e perfettamente pertinente con la drammaturgia raccontata. Saranno i sentimenti, fulcro dell'opera handeliana, il comune denominatore della lettura di Livermore che li accentua con sviluppi magnifici incastrando coerentemente tutti gli innesti emozionali che essa contiene. La scena è bellissima e sontuosa, nel caso del primo atto impressionante, come quel treno transiberiano che fermo sul palcoscenico, adombrato da nebbia, ci ricorda non solo altri film più recenti ma l'enfasi storica di quel periodo. E poi il grande palazzo con maestosa scalinata nel secondo atto, devastato dalla rivoluzione, che ricorda la Reggia d'Inverno degli zar. Non meno efficaci i costumi, bellissimi quelli femminili, con stole di pelliccia e grande taglio sartoriale; più convenzionali quelli maschili, divise d'epoca ma adeguatamente stilizzate storicamente. Infine, ma non per ultimo, il disegno video, che crea un effetto estetico, non di contorno ma di rilevante impatto, nell'immaginario collettivo di quella Russia d'inizio secolo. In tale visione così ben realizzata è impressionante, anzi sussiste per ciò, il lavoro del regista poiché la caratterizzazione, la traccia caratteriale e lo sviluppo della drammaturgia sulle vicende intime dei protagonisti sono espressione di alto teatro e recitazione.
Dopo l'ottima prova nella scorsa stagione, il podio era a buon diritto di Diego Fasolis, e bene ha fatto la Scala a riconfermarlo. A capo di un complesso composto dall'Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici e de “I Barocchisti” della Radiotelevisione Svizzera Italiana, l'esecuzione si distingue per accuratezza d'equilibrio, rigorosamente filologico, suono quasi immacolato. Il direttore segue una prassi esecutiva moderna ma di ampio respiro e straordinaria drammaticità, con sapiente resa teatrale e stile rappresentativo.
Nel cast i trionfatori sono i due controtenori Bejun Mehta, Tamerlano, e Franco Fagioli, Andronico. Cantanti con caratteristiche vocali dissimili, che esaltano per bravura tecnica, stile e precisione. Mehta si cimenta in un ruolo molto virtuosistico non mancando il bersaglio, con fulgida voce e timbro seducente cui si somma una personalità teatrale davvero emozionante. Fagioli, cui è riservata la parte composta per il Senesino, sbaraglia tutte le insidie dello spartito con una tecnica sbalorditiva, piegando una voce, anche per lui molto seducente, sia in momenti di grande seduzione e stampo melanconico, sia nel canto d'agilità, nel quale sfodera trilli mirabili, passa dall'acuto al grave con facilità, facendoci capire il suo vero talento che non conosce insidie in questo difficile ruolo.
Maria Grazia Schiava è stata un'Asteria molto delicata, la quale trova un terreno fertile nelle grandi arie elegiache, con un gusto molto pertinente attraverso una voce bella e sfavillante, anche se il registro acuto spesso era limitato o leggermente forzato. Marianne Crebassa disegna un'Irene di alto spessore dramamtico-teatrale. La voce, più di soprano che mezzosoprano, si adatta a un fraseggio eloquente con appropriate sfumature. Christian Senn, Leone, è vocalmente spigliato, vigoroso e musicale, pur non possedendo un registro grave appropriato al ruolo.
Infine, ma non per ultimo, Placido Domingo che interpretava Bajazet. Molti hanno rilevato che il cantante ritorna ora al registro di tenore, aspetto ridicolo poiché non l'ha mai abbandonato, ha cantato con la sua voce tenorile ruoli scritti per baritono, ma non è mai stato o è un baritono. Si resta impressionati per la grande volontà e la misura di professionalità espressa dal cantante nel cimentarsi in un ruolo che neppure durante la primavera della sua carriera sarebbe stato del tutto appropriato alle sue corde. Considerata anche l'età, non si può che rimanere ammirati da tanta energia e ricerca di stile. I risultati però sono limitati. Impensabile che la sua voce, che oggi denota un naturale deterioramento, possa piegarsi alle esigenze del canto barocco, il recitativo pur essendo molto ben scandito è sovente monotono e scarso di colore. Nella prima parte dell'opera trova anche accenti pertinenti, ma risulta sempre un po'in affanno e la pesantezza del ruolo si fa sentire. Arrivato al terzo atto, riesce con strabiliante teatralità a interpretare con tragicità molto espressiva la scena della morte con ferma voce (anzi mai oscillante in tutta l'opera) ed emotivamente teatrale. E qui Domingo sfodera le frecce che ancora può permettersi, il carisma dell'artista. Ciò che non può invece permettersi nell'aria di forza precedente dove cade clamorosamente.
Nel corso dell'esecuzione, peraltro di grande pregio e stile, due sono stati i momenti memorabili: l'esecuzione dei duetti “Vivo in te” (Asteria-Andronico) e “Coronata di gigli e di rose” (Tamerlano-Andronico), un chiaro esempio di trionfo di belcanto. Teatro quasi esaurito, cosa in parte eccezionale per un'opera barocca, ma il genere da qualche tempo è sempre più apprezzato anche in Italia. Applausi convinti a ogni aria, che si sono trasformati in ovazione al termine per tutti gli interpreti.
Lukas Franceschini
9/10/2017
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.
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