C'è ancora del marcio in Tauride
Oh my God!, sbotta una spettatrice del parterre alla Haus für Mozart al primo sipario su Iphigénie en Tauride di Gluck, al Festival di Salisburgo, protagonista Cecilia Bartoli, direttore Diego Fasolis.
Ma Dio non resta che nelle sue parole giacché non ci sono dei nella fosca, terribile e terragna vicenda della primogenita di Agamennone, strappata alla morte dalla dea Diana al padre che, seppure straziato, finiva per sacrificarla alla torva ragion di Stato. Né divinità né clemenza, dunque, nella sconosciuta eppure riconoscibilissima addirittura familiare Tauride dove il re Toade costringe la sventurata principessa d'Argo e Micene ad offrire agli dei la vita di ogni straniero che approda sulle spiagge di Tauride. E più che strazio, un lancinante stupore coglierà Iphigénie quando in uno degli stranieri ella riconosce il fratello Oreste. Lo salverà, certo, per essere poi salvata, a sua volta, dal fedele Pilade che contrastando le ire del re Toade, lo pugnala a morte.
Intenso, catturante, intransigente è l'allestimento di Mosher Leiser e Patrice Caurier, ormai conclamata nonché blasonata e teatralissima coppia d'oro del teatro d'opera nel mondo – come dire il pugno di ferro dell'innovazione nel guanto di velluto di creatività e buongusto.
I due registi – di cui il Festspiele, quest'anno, ha già ripreso una Norma di Bellini di prepotente successo, protagonista sempre Cecilia Bartoli, ormai loro cantante-feticcio e a piena ragione e che inaugureranno la prossima stagione del Teatro alla Scala di Milano con Giovanna d'Arco di Verdi – restituiscono qui un vero microcosmo di guerra permanente e permanente devastazione. Guerra infinita come in Nineteen-eighty-four di Orwell in cui due Stati sono l'uno contro l'altro a turno mentre, a turno, s'affianca il terzo parteggiando per uno di loro. Conflitti e carcerazioni: esistono forse (dis)valori più atemporali?
La scena di Leiser e Caurier – che è scientemente minimale, senza macchinerie pour épater le bourgeois e squadra vecchia non si cambia: c'è sempre Christian Fenouillat alle scene e Agostino Cavalca ai costumi – è uno squallido stanzone semivuoto. Solo due lettacci del più fetido ospedale da campo e neppure; in fondo alla scena, uno “sbarramento” di saracinesche che si squarceranno, poi, in terribili bocche metalliche per vomitare incubi veri e veri nemici. Potrebbe essere Auschwitz, un “arcipelago Gulag”, Abu Dhabi, persino lo Spielberg di Silvio Pellico. Le logiche di potere e sopraffazione non cambiano, le “missioni” e le “guerre umanitarie” non sono mai cambiate, non sono cambiati gli stupri “legalizzati” di corpi, menti, culture. C'è forse un'espressione-manifesto più dannatamente contemporanea di “Il nous fallait du sang”, ci mancava il sangue, di sangue c'era venuta voglia e sete, come dicono gli Sciti?
Eppure non ci sono facili citazioni dell'ultima ora in questa Iphigénie che vive tra Settecento e Terzo Millennio, i brutti, sporchi e cattivi sono senza tempo come i soldati che orinano sui prigionieri o lei stessa che, quando sta per sgozzare Oreste, prende a prestito – è vero – quel gesto tristemente esibito e sanguinosamente ieratico dei giustizieri dell'Isis ma, a ben pensarci, si tratta pur sempre d'un rito tribale che affonda le radici in tempi assolutamente conciliabili con quelli dell'Ifigenia euripidea. E, perché no, anche con certe crudeltà da XVIII secolo, epoca del compositore, del suo librettista Nicholas-François Guillard e di Claude Guimond de la Touche, autore della tragedia a cui Guillard s'era ispirato.
Ma la forza di Leiser e Caurier è tutta in quella tensione sfrenata e misuratissima, le donne specialmente. Le pretrêsse, specialmente. Che magnifiche artiste quelle del Coro della radiotelevisione svizzera, autentiche soliste sul piano vocale e recitativo: in testa, Laura Antonaz, composta e dolente, e poi Nadia Ragni, Elena Carzaniga, Mya Fracassini, Caroline Germond, Elisabeth Gillming, Marcelle Jauretche, Francesca Lanza, Silvia Piccollo, Brigitte Ravenel. Delle Troiane paiono sciagurate sorelle: i visi stravolti, i corpi mortificati ché da tempo è stata cancellata ogni traccia di femminilità, non vestite ma pietosamente coperte da indumenti d'accatto e senza distinzioni di genere. Non del tutto dissimile è l'abbigliamento di Cecilia-Iphigénie – tetro “abbinamento” pantalonacci di tuta sportiva e stracci d'ordinanza – a cui s'aggiunge, però, lo sguardo fisso di bambina invecchiata da un'attesa-agonia. E' quello sguardo – il suo – ad aprire, come il sipario, quel teatro di guerra.
Ed è vero prodigio nonché prodigiosa verità come tutto s'attagli perfettamente al barocco sanguigno ed etereo di Christoph Willibald Gluck (1714-1787) in cui, dice bene Fasolis, direttore e concertatore impeccabile ed esaltante, i tratti di musica e teatro devono risultare assai più vicini che in altre opere.
Una sola ingenuità, forse – riscattata comunque da poco più di due ore d'azione musicale asciutta e fluidissima, in cui applaudire a scena aperta è francamente difficile, tanto serrato è il ritmo che non concede interruzioni né si concede sbavature o prevedibilità. E cioè quella Clitemnestra, incubo perenne di Oreste, che emerge da un Ade voracissimo, il volto insanguinato modello Suspiria di Dario Argento. Per contro, sono le mani del Coro ad incarnare bene la persecuzione verso colui che uccise sua madre: i volti paurosamente cancellati da calze, loro continuano ad essere terribili scampoli d'Erinni.
Jovanka e le altre, Cecilia e le altre.
Intorno a lei si muovono – credibili e incredibili, tragici e forsennati – Rolando Villazòn (Pilade), Michael Kraus (Toas), Cristopher Maltman (Oreste), quest'ultimo in un nudo integrale che dura pochissimi minuti, peraltro, e che è incontestabilmente casto ché puro segno di vulnerabilità di un condannato a morte, ormai spogliato di tutto. Di vesti e di dignità. Se questo è un uomo. Completano bene il cast, Rosa Bove (una donna greca), Marco Saccardin (uno Scita), Walter Testolin (il Ministro).
Cecilia Bartoli è semplicemente inchiodante. La sua dizione teatrale è esemplare (Giuseppe Di Stefano sarebbe felicemente saltato dalla sedia e lui di teatro musicale ne capiva eccome), strepitosa è la sua “reviviscenza” stanislavskiana, la sua mimesi “naturale” e ragionata. Non cade in gigionerie nel gesto – che è sempre giustificato, consequenziale, necessario – né tantomeno nella voce, i cui colori e calori rendono più che mai giustizia a Iphigénie. E, sia detto per inciso, conforta non poco che a dirigere il Festival di Pentecoste di Salisburgo sia un'artista di tale, profondo, autentico engagement teatrale e culturale che applica innanzi tutto a se stessa.
“Tes pleurs ont lavé tes forfaits, je prends soin de ta destinée”. Niente più lacrime, sarò io a prendermi cura del tuo destino, dice Diana ad Oreste, alla fine. È una golden goddess, Diana (Rebeca Olvera), una dea dorata letteralmente dalla testa ai piedi: sembra quasi un irriverente abuso kitsch della divinità la quale, però, a sua volta, si fa beffe degli umani.
È la salvezza? Forse, ma c'è ancora del marcio in Tauride.
Carmelita Celi
22/8/2015
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