RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Quel che resta di Wilhelm Meister

 

Se Gounod, nel confrontarsi con Faust, giocò la carta della semplificazione accattivante e di un consapevole qualunquismo (Goethe è autore che vola troppo alto per essere restituito appieno dal pragmatico mondo del melodramma), sette anni dopo Ambroise Thomas, approcciando uno dei più stratificati lavori goethiani come i Wilhelm Meisters Lehrjahre, affiderà il successo della sua Mignon a una medietas tanto gentile quanto aproblematica. Siamo nel 1866, gli anni molto ottimistici ma poco “critici” del Secondo Impero: e Thomas con i suoi librettisti – Barbier e Carré, non a caso gli stessi del Faust – preferisce racchiudere la metafora del teatro come scuola di vita (quella che diventerà, letteralmente, la “missione teatrale” di Meister) in un amabile bozzettismo sulla vita vagabonda degli attori girovaghi, stemperando il grandioso romanzo di formazione concepito da Goethe in una malinconica vicenda sentimentale non priva di qualche guizzo fatuamente ironico. Molto francese, certo.

Se Gounod aveva imborghesito Faust spogliandolo del suo sofferto titanismo, Thomas circoscrive un personaggio-chiave della cultura tedesca come Wilhelm Meister, che accompagnò tutta la vita di Goethe, a un lirismo gradevole e sfumato: una tenorilità talmente urbana e serena da declassarlo a “spalla” della protagonista femminile e fare di Mignon – figura memorabile, ma relativamente periferica nel romanzo – la vera mattatrice della partitura. D'altronde il personaggio aveva acquistato vita autonoma, nell'immaginario musicale collettivo, da quando il suo celebre Lied era diventato una pubblicazione a se stante, poi messa in musica da Beethoven e Schubert, Liszt e Schumann. Senza poter competere con loro, e anzi prendendone le distanze proprio in virtù del genere opéra-comique in cui Mignon s'incanala, Thomas comunque strizza l'occhio a un lessico e un immaginario all'epoca ben noti; e la popolarità effimera ma indubbia che arrise a questo lavoro conferma il suo fiuto di abilissimo confezionatore.

Resta da vedere se, dietro la facciata, ci possa essere anche dell'altro. Ne è convinta Helen Malkowsky, regista di questa nuova produzione al Tiroler Landestheater di Innsbruck: e i risultati le danno ragione, proprio perché rinuncia a far rientrare dalla finestra del suo spettacolo quanto – del libro di Goethe – era uscito dalla porta dell'opera di Thomas, cercando invece altrove i possibili appigli concettuali e gli eventuali spessori nascosti. Il risultato è una Mignon in abiti moderni, che asciuga la debolezza di quella drammaturgia musicale (grazie pure alle sforbiciature che sopprimono ruoli collaterali e quasi azzerano le parti parlate) e di quei personaggi preservandone, però, tutta la fragilità: Wilhelm Meister, Mignon, Lothario, perfino un ruolo da soprano-coccodè totalmente apsicologico come Philine, appaiono qui figure devastate dai sentimenti, viandanti risucchiati da un tunnel della vita ben rappresentato dalla metropoli degradata – ora bidonville, ora lustrini da varietà di periferia – evocata dalle scene di Dieter Richter.

In questa prospettiva, la mancanza dell'happy end – la regia della Malkowsky nega a Mignon il coronamento del sogno d'amore, facendola morire tra le braccia di Wilhelm e Lothario – appare non solo inevitabile, ma a suo modo filologica. Infatti pure Thomas, quando si trattò di far circolare l'opera nei teatri tedeschi, fu indotto a ripensarne il finale e scelse la via dell'epilogo tragico: anch'esso con Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister c'entra poco, ma almeno sottraeva il lavoro a quell'alone di gentile fatuità che era, in rapporto a Goethe, quanto più rischiava d'indispettire il pubblico germanico. E la convergenza d'intenti tra podio e cabina di regia corrobora questa visione: Seokwon Hong sigla una lettura musicale morbida ma densa, più incline all'ampio impasto timbrico che al melodizzare epidermico e catturante, “sinfonica” piuttosto che “cantabile” (di un'aria di bravura come quella di Philine si sottolinea soprattutto il côté parodistico), dove emerge il nocciolo dell'opéra-lyrique mentre dell'opéra-comique resta, e solo a intermittenze, la buccia.

Naturalmente, non sarebbe possibile avere una Mignon così poco “innocua” e sentimentale senza una protagonista adeguata. A Innsbruck c'era. Lamia Beuque restituisce l'anima divisa in due del personaggio: quell'acerbità che è già sensualità, il fisico androgino che cova una femminilità devastante, la speculare natura anfibia dell'organo vocale (uno strumento di mezzosoprano chiaro e adolescenziale, ma già formato pure nei recessi timbrici più carnali). E l'interprete è di una drammaticità livida, concentrata, quasi cameristica pur nell'evidenza teatrale del fraseggio (forse un lascito della sua maestra Christa Ludwig), che riesce davvero ad apparentare il Connais-tu le pays di Thomas al Kennst du das Land di Schubert o Schumann.

Jon Jurgens è un Wilhelm altrettanto credibile, ma meno rifinito: un tenore lirico-spinto, tale però più in virtù di un canto – appunto – “di spinta” che di una concreta robustezza vocale, persuasivo nel fervore di Elle ne croyait pas e non nella malinconia trattenuta di Adieu Mignon. Lothario rappresenta una delle più complesse parti di basso cantante, quasi ai confini del basse-baryton, della letteratura operistica francese: Johannes Maria Wimmer l'onora nelle discese gravi, si stimbra un po' quando deve salire, affronta comunque in modo compenetrato il suo ruolo di padre nobile e clochard. Sophia Theodorides amministra con gusto sorvegliato e volume talvolta deficitario i fuochi d'artificio di Philine, trovando nel Laerte di Florian Stern – ottimo tenore caratterista – una valida spalla. Mentre, ai margini del quadro, lo zingaro Jarno ladro di bambini può contare sull'emissione disordinata, ma anche sulla calzante truculenza, di un tatuatissimo Joachim Seipp.

Paolo Patrizi

13/6/2019

Le foto del servizio sono di Umschlagphoto.