StrepiTos(c)a!
La scelta del soggetto giusto fu sempre uno dei crucci principali per Puccini, che impiegava a volte anche anni per trovarne uno, salvo poi scartarlo. Il caso di Tosca fu diverso. Puccini vide la pièce omonima di Victorien Sardou al Teatro dei Filodrammatici di Milano all'inizio del 1889, venendone colpito immediatamente. E per sei anni tenne duro (nascono nel frattempo Edgar, Manon Lescaut e Bohème), finché, nel 1895, iniziò a lavorare all'opera, completandola nel 1899. Il libretto venne affidato alla coppia Illica-Giacosa, già collaudata per Bohème.
Ma le indecisioni e i ripensamenti, tanto sulla musica, quanto sul libretto, erano proverbiali, in Puccini, che, non ancora del tutto convinto della sua quinta creatura teatrale, tornò ancora sulla partitura, aggiustando il tiro su pochi dettagli e consegnando finalmente alla storia.
Per l'inaugurazione della stagione lirica 2019/2020 del Teatro alla Scala di Milano, Riccardo Chailly decide di farci fare un salto nel “dietro le quinte” della Tosca, di farci tornare alla fase gestazionale, anzi nemmeno, alla nascita dell'opera, avvalendosi dell'edizione critica approntata da Roger Parker, che ripristina proprio quella manciata di battute soppresse da Puccini stesso probabilmente a ridosso o subito dopo la prima, avvenuta al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900. Chailly prosegue dunque con la proposta delle versioni primigenie delle opere pucciniane, dando modo di approcciarvisi con le orecchie del primo pubblico assoluto. Lasciando la parola a Parker, musicologo insigne non nuovo a operazioni filologiche di questo tipo, «[questa Tosca] è un tentativo di ritornare a una versione dell'opera il più vicina possibile a quella presentata al pubblico romano alla prima mondiale […]. Alcune […] differenze non varcarono i confini della partitura autografa, e quindi forse non arrivarono neppure alla prima rappresentazione»: ma è certo che furono scritte da Puccini e che circolarono nelle versioni a stampa dello spartito per canto e pianoforte edito da Ricordi. In particolare le modifiche sono: « – cinque battute aggiuntive nel duetto Tosca-Cavaradossi del primo atto;
– un diverso finale del Te Deum corale alla fine del primo atto; – una versione più lunga della sdegnata preghiera di Spoletta alla fine della tortura di Cavaradossi; – una riscrittura del famoso verso di Tosca “Quanto? Il prezzo”; – due battute aggiuntive alla fine di Vissi d'arte ; – una versione assai più lunga della scena della morte di Scarpia e delle parole finali di Tosca; - una conclusione sensibilmente diversa per gli ultimi momenti dell'opera, con un'intensa declamazione di Tosca e una ripresa più ampia di E lucevan le stelle» (Parker). Perché Puccini cambiò idea e alla fine eliminò questi passaggi, resta una domanda senza risposta. Ragioni puramente musicali, drammaturgiche o di semplice preferenza. Di sicuro costituisce elemento di interesse per il musicologo filologo scavare negli strati sottostanti dell'opera per ricostruirla quale l'autore l'aveva immaginata, sia pure in uno stato non definitivo.
Per l'occasione, Davide Livermore firma un nuovo allestimento aderente al libretto, che sfrutta tutto il potenziale della macchina scenica della Scala e che pare voglia far entrare tutta la dinamicità del cinema nella staticità del teatro. Come infatti nel cinema la telecamera si sposta per inquadrare la stessa scena da diverse angolazioni, e il pubblico la segue spostandosi con essa, qui si ha che sono le scene (dello studio Giò Forma: Florian Boje, Cristiana Picco, Claudio Santucci) a muoversi, proprio come se venissero “inquadrate” da parte del pubblico: e si spostano in modo cinematografico, soprattutto nel caso della chiesa di Sant'Andrea della Valle al primo atto: la cappella degli Attavanti che ruota su se stessa, altari che vanno e vengono, scenografie che scivolano di lato; perfino il dipinto della Maddalena, che, da bianco e nero, magicamente si colora quando Cavaradossi attacca Recondita armonia: magia creata dalla società di video-design D-WOK, coadiuvata dalle splendide luci di Antonio Castro. Angelotti arriva spalancando il portone d'ingresso al fondo della scena, ma poco più avanti al fondo della scena ci sono le canne di un organo: il punto di vista è cambiato, pur non cambiando la posizione della platea. Intuizioni che culminano nel Te Deum sfarzoso e monumentale, prevedibilmente orientato verso la platea. Più tradizionale la sala di Palazzo Farnese del secondo atto, curata nel dettaglio; ma non manca la trovata di genio, quando il pavimento, sollevandosi, rivela Cavaradossi legato a una sedia nei sotterranei. Di nuovo cinematografico il finale, che rinuncia alla coerenza più stretta in favore di un volo della fantasia: e di “volo” di deve parlare, perché Tosca, anziché gettarsi come da copione dagli spalti di Castel Sant'Angelo, ricorre a una controfigura e rimane sospesa in aria, sopra un bastione che sembra una torre avvolta da un'ala piumata, mentre attorno a lei si crea il buio: il vuoto della caduta, in quegli attimi che sembrano eterni, mentre la musica (in questa versione la coda strumentale è parecchio più lunga di quella corrente) sembra non finire mai. E quando il sipario si riapre, e riemerge il bastione-torre che nel frattempo era stato abbassato al livello del golfo mistico, si ha modo di constatare la profondità del palcoscenico, veramente impressionante.
Appunti a margine: Angelotti che si cela in una botola e ricompare da un'altra parte; pie suore che spostano pilastrini di marmo con candele, non proprio verosimile, dato il peso; costumi (di Gianluca Falaschi) ben fatti, soprattutto per Tosca e Cavaradossi, meno azzeccati per Scarpia e compagni, che indossano paletot in similpelle dai riflessi rossastri, e, per quanto riguarda Scarpia, una tenuta in nero non proprio in linea con i criteri temporali dell'opera e che rimanda a tutt'altro periodo storico.
Riccardo Chailly, alla testa dell'Orchestra, del Coro e del Coro di Voci Bianche del Teatro alla Scala (cori istruiti da Bruno Casoni), opta per una direzione anch'essa cinematografica, che indulge, ove la partitura lo permetta, in tempi piuttosto dilatati, platealmente distesi, in generale più lenti di quelli adottati di solito, e se ne compiace, gonfiando il suono dell'orchestra, rendendolo corposo, qua e là con pennellate decadentistiche, senza scadere, per fortuna, in un puccinismo d'effetto o di maniera. Ma se può permettersi di rallentare diverse sezioni (rendendole più meditative e per contro più cariche di tensione psicologica, soprattutto durante l'interrogatorio e il finale del secondo atto, dove chi scrive confessa di essersi sorpreso a trattenere il fiato involontariamente al riaccendersi delle luci in sala), è perché può contare su un cast vocale di tutto rispetto.
Per quanto riguarda la recita del 22 dicembre 2019, sesta rappresentazione in concomitanza (voluta o casuale) col centosessantunesimo compleanno di Puccini (n. 22/12/1858), l'indisposizione della prevista Anna Netrebko nel ruolo di Tosca ha permesso di apprezzare Saoia Hernández, soprano madrileno che riconferma, dopo la sua prestazione nell'Attila d'apertura l'anno scorso, la sua vena spiccatamente lirica e la sua voce vibrante, dal timbro morbido e caldo. Il confronto con la diva russa non si può proporre: talentuose entrambe, ma differenti. Nel caso della Hernández si è in presenza di una cantante nata per il melodramma ottocentesco verdiano che applica la sua tecnica alla vocalità pucciniana, più passionale. Il connubio che ne esce è una Tosca più “lirica” anche nel personaggio: meno furiosa, meno sanguigna, più elegante, in certi casi più diafana, come nel (giustamente) molto applaudito Vissi d'arte, interpretato come dovrebbe esserlo sempre, come una preghiera, un'invocazione, tesa verso l'alto.
Francesco Meli è il Mario Cavaradossi di turno. Per lui prestazione buona, nei limiti delle sue potenzialità e della sua arte, che dà comunque il suo meglio in ruoli di altro tipo, meglio se primo-ottocenteschi. Volume vocale non eccezionale, si rifà puntando sulla liricità del personaggio, dando a Recondita armonia e a E lucevan le stelle tratti di sognante levità (nell'ultimo caso aiutato dai bei filati e dal tempo rallentato di Chailly). Bene nei duetti di primo e terzo atto, un po' meno convincente nel ruolo eroico del secondo atto.
Applausi meritatissimi per Luca Salsi nei panni di un convincente barone Vitellio Scarpia. Se nel primo atto pare ancora scaldarsi (nel Te Deum al primo atto viene a trovarsi inghiottito dal volume di coro e orchestra), nel secondo sbaraglia file di baritoni nello stesso ruolo, risultando convincente su tutta la linea, vocale e interpretativa. Ottima anche la recitazione, che porta in scena un antagonista violento e perverso, che non si sporca le mani reagendo all'aggressione di Cavaradossi, ma aspetta che siano i suoi sgherri a togliergli di dosso il prigioniero, ma che dà sfogo alle sue intemperanze scaraventando a terra la coppa in cui beve (il fatto che, cadendo, tale coppa dorata rimbombi con rumore di plastica e non di metallo fa cadere la tensione drammatica, ma poco importa).
Di alto livello anche il comprimariato: l'Angelotti di Carlo Cigni, il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi (questo personaggio deve sempre ravanare nel canestro di Cavaradossi: stavolta addenta una mela e si trattiene all'ultimo dal rimetterla al suo posto), lo Spoletta di Carlo Bosi, lo Sciarrone di Giulio Mastrototaro, il Carceriere di Ernesto Panariello e il Pastore di Gianluigi Sartori.
Christian Speranza
8/1/2020
Le foto del servizio sono di Brescia/Amisano-Teatro alla Scala.
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