RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'importanza di (non) essere tragico

 

L'importanza di essere tragico.

Difficile a dirsi e ancora di più a credersi, nonostante noi si continui ad essere devastati da catastrofi e cataclismi d'ogni sorta, la tragedia sembra non abitare più le “cento stanze” della nostra esistenza, «cento stanze» come diceva Annabella a proposito di Gigliola nella Fiaccola sotto il moggio di D'Annunzio, esempio indiscusso di tragedia “alla greca”: «Va per la casa, per le cento stanze, va come ieri andò, come andrà sempre, con quel suo cuore che tanto le pesa…»

E sembrava urlarlo – con quella sua voce sommessa e compressa, tutta orwelliana – uno stralcio di Nineteen-eighty-four: «Si rese conto che il tragico apparteneva ad un tempo remoto, a un tempo in cui ancora esistevano la vita privata, l'amore, l'amicizia… Oggi cose simili non sarebbero potute accadere. Oggi la paura, l'odio e il dolore c'erano ancora ma non esistevano più pene profonde e complesse né la dignità data dall'emozione».

Insomma il lutto si addice ad Elettra ma non a noi. Non ora, non qui.

E il passaggio dal vivere al palcoscenico – in prima istanza quello fatto di sola, unica pietra come il Teatro antico sul Temenite, a Siracusa – è quasi “naturale” e inevitabile. Se la scena contagia noi, noi contagiamo la scena.

E laddove non v'è più tragedia, c'è il dramma borghese. Discretamente ma inesorabilmente esso s'impadronisce di parola, gesto, suono. Via i versi (e con loro prosodia, metrica e tutti i “paramenti sacri” del rito del dire) a favore di una prosa fluida, dall'incedere intimo e quotidiano, via la postura tragica a favore d'una più agile flessibilità e “verità” di corpi. E via le voci – quelle che dirompevano e irrompevano da casse armoniche quasi sovrumane – a favore di timbri “normali”, colloquialissimi, necessariamente soccorse – le voci – da amplificazioni di cui oggi non si può più fare a meno, visto l'aggressivo inquinamento acustico che, al culmine di un'agnizione o d'una catarsi, può riservarti di tutto, dalla house music della vicina concessionaria d'automobili ai clacson martellanti, nella migliore delle ipotesi contrastati dai rintocchi delle campane di chiesa.

Ma la tragedia è morta, viva la tragedia.

Sicché, una volta riconosciuta la transumanza della tragodìa, disponiamoci a ricevere una tragedia “altra” e facciamo in modo da conservare il dramma antico e la “grecità” del teatro il più a lungo possibile. E – si licet - in qualunque forma possibile.

Ecco allora che in Edipo re di Sofocle su regìa di Daniele Salvo (traduzione di Guido Paduano) in scena a Siracusa per la stagione 2013 dell'Istituto del Dramma Antico, la tragedia diventa horror. In scena (la firma è di Maurizio Balò e sarà la stessa per i tre spettacoli in cartellone) è l'enorme testa della Sfinge (i cui occhi alla fine sanguineranno, come da subitaneo accecamento, lei come Edipo e come il Coro) a fungere anche da Palazzo reale. Ma se ciò è segno e simbolo che Edipo abiti proprio nel testone dell'enigma, al tempo stesso l'ingresso a corte ne risulta scenicamente sacrificato, annullando quell'ombra di ieraticità che spetterebbe di diritto anche agli sciagurati sovrani della stirpe dei Labdacidi. Tutt'intorno, cadaveri d'uomini e d'animali come di morte consumata dalla peste e annunciata da grumi di sangue mai scomparsi.

E horror è specialmente quel Coro di morti viventi, calvi e deformi, ora oscuri monatti a metà tra i Templari e i più mesti incubi di Tim Burton, ora dervisci rotanti di un'epica tecnologica in odore di Avatar, non più colossale ma kolossal. E in uno “spettacolo” a tutti gli effetti, servito da musiche da soundtrack (Marco Podda) in cui Edipo, in finale, si allontana su una sorta di Carro del Sole – il deep impact del Coro è annullato e si piega ad un dialogo borghese, mutando in dramma la mitica tragedia di nascere.

Daniele Pecci (Edipo) rivela ottimo impegno di giovanile entusiasmo che poco riscontro ha con la sofferenza psico-fisica e l'ossessione filosofica di un mondo che si sfalda intorno a lui, innocente colpevole. Laura Marinoni è una Giocasta di talento e strepitosa presenza scenica, Maurizio Donadoni già qui e più che mai in Antigone dove ricopre il medesimo ruolo, ha la riconoscibile coscienza di Creonte, politico malgré lui che cade sempre in piedi; Mauro Avogadro (Servo di Laio, Sacerdote) è un hystrio tragico e tecnicamente perfetto il cui “resoconto” poteva forse essere più allucinato.

E se a un tratto irrompe un applauso a scena aperta (in realtà è di sortita) non è per via della buca infernale che s'apre come una sorta di hell pre-elisabettiano da cui l' horror prende la forma di piccoli Caliban – ma perché, in scena, Tiresia ha volto, voce e anima di Ugo Pagliai. Non accecato ma cieco di natura e perciò tragicamente capace di “vedere” l'invisibile agli umani ma non certo meno dolente di loro – Tiresia – e non meno impotente dinanzi alla catastrofe di colei «che aveva concepito da un marito, un marito – da un figlio, un figlio». Esempio imperdibile d'una generazione (l'ultima, verrebbe da dire, dati i tempora e i mores) capace di restituire i ritmi “estremi” e senz'appello della Tragedia, Pagliai coincide felicemente e sensibilmente con l'unico vero momento di téatron, antico e senza tempo.

«Antigone nel tempo e con allestimenti più che illustri, specialmente dopo la Seconda Guerra, è diventata il santino della ribelle, della ragazza ‘contro'. Se ne è magnificata la dissidenza che certo avrà pure avuto i suoi fondamenti storici. Ma il problema è che Sofocle non descrive Creonte come un tiranno ma come uomo politicamente appassionato che si trova a gestire la fine di una guerra civile innescata dai maledetti Labdaci, morti per fratricidio. Epperò in tutto ciò, il dispositivo che abbiamo in mano non è un melodramma o propaganda o ideologia ma una tragedia

Parole sacrosante e di raro ingegno teatrale quelle di Cristina Pezzoli, regista di Antigone di Sofocle (nell'italiano di Anna Beltrametti), secondo titolo della stagione dell'Inda e che lei ha musicalmente affidato all'incontestabile genio jazz di Stefano Bollani che poco si attaglia alla tragedia. E tuttavia le sue parole e il suo progetto brillante e acutamente appropriato devono fare i conti con la recitazione sommessa, intimista, contemporanea (ed è in questo repertorio che lei è capace di brillare) ma non così “tragico” di Ilenia Maccarrone nei panni della sciagurata figlia di Edipo. È la sua gestica segnatamente quotidiana e “confidenziale” ad aprire il capolavoro sofocleo che la Pezzoli ha voluto dotare di una sorta di prequel ovvero il Prologo delle Fenicie di Euripide in cui s'immagina Giocasta ancora viva. Morta nella lettura della Pezzoli, Giocasta è un'ombra emersa dall'Ade che racconta ciò che è accaduto prima: i fratelli fratricidi, tornati bambini, duellano e si trafiggono en ralenti come in un gioco alla guerra mentre lei ne intesse una urlante didascalia.

La scena è una Tebe-cimitero dalle porte sconquassate, ne resta in piedi una sola, al centro, mentre le altre sono diventate una sorta di camminamento per vittime e carnefici e quella stessa porta, rimasta intera, si schiuderà, alla fine, sulle armi e sui cuori bruciati di Eteocle e Polinice. È questa Tebe fantasma che si prepara a piegarsi alle (legittime?) ossessioni politiche di Creonte. Non più così tiranno, il fratello di Giocasta, piuttosto un governatore esemplare, un disgraziato a cui tocca togliere le macerie e in tale direzione si muove bene la passione, la veemenza, la disperazione tardo-ottocentesca di Maurizio Donadoni che, alla fine, il Coro chiamerà “assassino” trascinandolo su sabbie mobili e martoriandone più l'anima che il corpo.

Luci di Antigone sono un'invenzione drammaturgica di Sofocle ed una piccola, grande, vincente hybris attoriale operata dalla regista. Da un canto, infatti, il personaggio della Guardia, raro esempio di umorismo in tragedia in cui Sofocle inventa la parte ad effetto e che qui Gianluca Gobbi restituisce al meglio, realizzando connubi di voci, registri, respiri. Dall'altro, ecco un Tiresia-donna e d'assoluta eccezione: è Isa Danieli, da sempre interprete rigorosa fino allo spasimo, qui “attore” imponente e prepotente. La voce impastata di terra e di epos, ora trascinata o meglio guidata attraverso un'interminabile, fiabesca chioma argentea, ora acciambellata come un guru apolide, non dolente ma arrabbiata, Isa-Tiresia si appella a radici antiche e vicinissime del “centro della terra” di un Mare Nostrum e “monstrum”.

Le stesse che, sulle rive del Mediterraneo, inondano d 'Antigone un vecchio proverbio calabrese: Mariti mi n'abbrazzu, figghi mi ni fazzu. Frati e soru: comu fazzu?

Carmelita Celi

14/6/2013

Le foto del servizio sono di Franca Centaro e Maria Laura Aureli.