La Traviata
tra Dumas e Verdi
Che il melodramma ottocentesco abbia tratto quasi sempre linfa dalla narrativa e dal teatro è cosa risaputa, almeno per il pubblico che lo frequenta assiduamente; ma è senza dubbio opera meritoria mostrare ostensivamente come si attui tale passaggio, in un intento didattico rivolto soprattutto ai non addetti ai lavori, a coloro cioè che col melodramma hanno una frequentazione occasionale, per lo più estiva, dettata spesso dalla semplice curiosità o dalla prospettiva di trascorrere una serata diversa.
In tal senso, non può non costituire una lodevole iniziativa quella del Teatro Massimo Bellini di Catania, che il 22 luglio, con repliche sino al 27, ha allestito al Cortile Platamone di Catania un'insolita Traviata in forma semiscenica, ridotta e adattata da Ezio Donato, che recava l'esauriente sottotitolo La storia della Signora delle camelie raccontata da Alexandre Dumas. Si trattava in buona sostanza di una ben congegnata commistione tra il romanzo di Alexandre Dumas figlio e l'opera verdiana, dove la musica del Cigno di Busseto sembrava sgorgare con sorprendente naturalezza dalle parole di Dumas, interpretato da Pippo Pattavina, che sin dal preludio del primo atto introduceva lo spettatore nel dorato ed effimero demi-monde della Parigi di primo Ottocento, narrando passo passo l'incontro con Alphonsine Duplessis, alias Margherita Gautier, protagonista della Signora delle Camelie, alias infine Violetta Valery, la commovente cortigiana de La Traviata. La figura della giovane Duplessis veniva tracciata in tutto il suo ambiguo fascino, nella sua infanzia infelice, nella sua lenta ma irresistibile ascesa mondana e infine nell'inesorabile declino dovuto alla tisi; con l'avanzare della narrazione entrava in scena la musica di Verdi, offrendo le pagine più significative e avvincenti di uno dei melodrammi più famosi ed eseguiti al mondo.
Un'operazione che farà certo arricciare il naso ai musicologi più arcigni, ma che rappresenta comunque un modo alternativo di avvicinare all'opera lirica una nuova fetta di pubblico, aiutandolo a capire la vicenda narrata dal canto, cosa non spesso facile per chi non ha l'orecchio abituato sin da giovane, e soprattutto a percepire il melodramma non come un monumento isolato, ma come una manifestazione artistica strettamente collegata alla narrativa e al teatro.
La regia di Ezio Donato, semplice ai limiti del minimalismo ma molto efficace, riusciva, complici la scenografia di Salvatore Tropea, le luci di Salvatore Campo e i costumi di Dora Argento, a ben valorizzare lo stupendo frammento di balcone del Palazzo Platamone, sfruttando al massimo le pur ridotte dimensioni dello spazio scenico. I brani letti da Pattavina si armonizzavano abbastanza bene nel quadro d'insieme, sia per lunghezza sia per congruenza con l'opera lirica, che è stata ridotta con buon gusto, senza che uno dei due linguaggi artistici prevaricasse sull'altro: interessante la risoluzione del maggior dissidio tra il romanzo e il libretto di Piave, giacché nel romanzo Armand non riuscì a riabbracciare Margherita prima della morte di lei, incontro che in Verdi costituisce quasi tutto l'ultimo atto. Il testo ha accennato esplicitamente a tale disparità, interpretandolo quasi come un omaggio del librettista e del compositore alla memoria di una donna infelice e vittima della società.
L'orchestra del Bellini, diretta con buona scelta dei tempi da Antonino Manuli, ha dato prova di solida compattezza e di un notevole miglioramento del colore, riuscendo, pur nei limiti di un'amplificazione talora eccessiva, a ben dosare le sonorità e a non sovrastare mai i cantanti. In linea con l'orchestra la prova offerta dal coro, anche se sarebbe stato auspicabile un più attento dosaggio del suono che, specie nell'ultimo atto, ha un po' debordato, dimenticando che si tratta di un canto fuori scena che giunge dunque ovattato nella camera di Violetta moribonda.
Giada Kim, giovanissimo soprano coreano, ha interpretato con valida professionalità la non facile tessitura della protagonista, dando prova di discreta dizione, di una voce abbastanza lunga, padrona dei passaggi di registro e assolutamente a proprio agio nei filati, con acuti ben coperti e precisi: abbastanza buona la resa scenica, anche se sarebbe stato meglio evitare, specie nel terzo atto, movimenti troppo frenetici e più consoni all'opera verista che al melodramma verdiano. Si tratti di scelte registiche o meno, la Kim ha comunque mostrato di curare abbastanza poco i recitativi, evidenziando in questi ultimi un fraseggio spesso carente e poco elegante; è comunque possibile che si tratti di difetti imputabili ancora alla scarsa esperienza, ma soprattutto ad una dizione che, seppur precisa e chiara, ha bisogno di rifiniture linguistiche, e soprattutto di maggior cura nell'apertura delle vocali e nella pronuncia consonantica, ancora un po' dura per l'italiano.
Il tenore Aurelio Gabaldon, nel ruolo di Alfredo, si è mostrato non esattamente a proprio agio nella parte: voce più adatta ai ruoli di grazia che a quelli lirici, ha spesso forzato, evidenziando a tratti, pur all'interno di una buona musicalità, una certa retroflessione dell'emissione che ha nuociuto alla tenuta della voce e dell'intonazione.
Buona la prova del baritono Giovanni Guagliardo che impersonava Germont: eccellente la dizione, bronzeo il timbro, immune da forzature. Ha interpretato con sentimento la celebre “Di Provenza il mare il suol”, dando prova di attenta cura dei recitativi, pur se gli mancava quella morbidezza di suono tipica del baritono grand seigneur.
All'altezza della situazione anche Piera Bivona, Annina, e Maurizio Muscolino, Grenvil. Il pubblico, abbastanza numeroso nonostante il caldo, ha applaudito calorosamente sia durante l'esecuzione che alla fine dello spettacolo, dando prova di aver gradito tale commistione artistica che potrebbe essere ripetuta anche per altre opere di repertorio.
Giuliana Cutore
23/7/2015
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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