RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Roma una Traviata

all'insegna della mondanità e dell'eleganza

La Traviata allestita al Teatro dell'Opera di Roma spicca per la propria connotazione mondana, garantita dal tocco inconfondibile di Valentino, autore di abiti eleganti e perfettamente aderenti al personaggio di Violetta. Il loro trascolorare dal nero al bianco, dal rosso al rosa pallido, assume valenze simboliche e prettamente poetiche. La protagonista appare come un fragile fiore destinato ad appassire prematuramente, preda della morale borghese all'epoca imperante. Un allestimento sontuoso e totalmente nel solco della più lussuosa tradizione, firmato appunto dal grande stilista insieme al suo fedele collaboratore Giancarlo Giammetti. Le scene create da Nathan Crowley sono grandiose e spettacolari. Nel primo atto uno scalone immenso che quasi taglia in due la scena proietta la protagonista nell'azione come una diva hollywoodiana. Il richiamo all'ambito statunitense non è peregrino, se pensiamo che la regia è stata affidata a Sofia Coppola la quale, forse colta da timore reverenziale nei confronti di un mondo che non è il suo, rinuncia a qualsiasi libertà espressiva. I personaggi appaiono timidi, come imprigionati in una malinconia straniante che ricorda le atmosfere di Lost in translation. Tutto va avanti in maniera abbastanza prevedibile e il romanticismo, che impregna la sostanza dell'opera, appare latitante. Se l'obiettivo è quello di rendere il dramma borghese con realismo, non si capisce perché si trascurino alcune notazioni del testo, come quando all'inizio del terzo atto Violetta dice ad Annina “dà accesso a un po' di luce” e questa, invece di aprire le imposte, schiude la porta per far accedere il dottore. Gli errori registici non si contano: ad esempio la debilitata Violetta, prossima alla morte, spinge Alfredo con forza inusitata. Chi non ama le derive moderniste avrà certo apprezzato il fasto dell'allestimento. Eppure la Traviata non si esaurisce nei turbini festaioli. L'intima commozione del dramma borghese, le dinamiche legate ai contrasti sociali sono andate in gran parte perdute.

Le cose non vanno meglio dal punto di vista musicale. La direzione di Jader Bignamini non riesce a cogliere l'emozione all'interno della scrittura verdiana. La Traviata si gioca tutta sul canto di conversazione, sui silenzi e sulle improvvise riflessioni. La melodia è affidata a brevi sprazzi, epifanie aforistiche e magistrali tocchi di pennello che richiedono una comprensione precisa della partitura. Tutto questo sfugge a Bignamini, il quale sciupa ogni occasione a sua disposizione. Il problema non è nei tempi, a volte afflitti da eccessiva lentezza, ma nella mancanza di senso teatrale.

Riguardo i cantanti, chi scrive ha ascoltato il secondo cast. Maria Grazia Schiavo è una Violetta volenterosa, capace di bei momenti ma alterna negli esiti. Nella cabaletta conclusiva del primo atto mostra ad esempio una certa preoccupazione, che le fa sbagliare la puntatura acuta. Nel secondo atto canta molto bene, mentre nel finale si vorrebbe un approfondimento maggiore. Arturo Chacón-Cruz è un Alfredo impetuoso ma tecnicamente incerto, dagli acuti sovente gridati. Giovanni Meoni è un Germont posato, sempre nobile negli accenti anche se il timbro chiaro non è perfetto per il ruolo del padre severo. Qualche sbavatura nelle note alte non inficia una prestazione sostanzialmente buona. Apprezzabili nel complesso le parti di contorno. Teatro pieno e pubblico molto caloroso per uno spettacolo che, anche grazie alla sua cornice mondana, sta polverizzando ogni record d'incasso nella storia dell'Opera di Roma.

Riccardo Cenci

4/6/2016

La foto del servizio è di Yasuko Kageyama-Opera di Roma.