RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un fior che nasce e muore

In un'alba livida e piovosa, un nero corteo funebre attraversa la scena, s'inerpica tra le lapidi di monumenti funebri, facendosi scudo con ombrelli aperti contro la furia degli elementi. È questo lo sfondo visivo al Preludio del primo atto de La traviata, che il Teatro Massimo di Palermo ha presentato, in chiusura di stagione, quale ultimo atto di un composito tributo a Giuseppe Verdi, di cui ricorre il bicentenario della nascita. Titolo tra i più amati dal pubblico, faceva ritorno nel Massimo teatro dell'isola ad appena sedici mesi dall'ultima ripresa: la ragione era quasi self evident, e cioè il debutto italiano nell'opera di Desirée Rancatore, già applaudita in questo ruolo a Monte-Carlo come in Oman, a Vienna come a Madrid. La cantante palermitana ha così iscritto il suo nome – ultimo ma non per ultimo – tra le illustri presenze della sala del Basile, in un albo d'oro d'eccellenze del belcanto, che dal 1898 al 2012 vanta, tra le altre, le interpretazioni di Giuseppina Gargano e Gemma Bellincioni, Ester Mazzoleni e Claudia Muzio, Maria Caniglia e Maria Cebotari, Magda Olivero e Renata Scotto, Leyla Gencer e Anna Moffo, Maria Chiara e Mariella Devia. E subito occorre salutare con favore la bella prova della Rancatore, che presenta i tratti di una donna giovane e volitiva, certo dedita con trasporto ai piaceri della vita perché determinata e combattiva. Cantante di sicura maturità, domina senza difficoltà gli ostacoli dell'impervia partitura, ma emerge soprattutto per la capacità di tratteggiare un ritratto a tutto tondo di Violetta Valéry: il timbro si è fatto rotondo ed omogeneo, la coloratura è – ma lo è sempre stata – limpida e perfettamente fluida. Ma a questo si aggiunge uno scavo interpretativo che la porta ad affrontare le pagine più patetiche del dramma puntando su un canto perfettamente appoggiato, tutto fondato su un gioco di fiati e di chiaroscuri talmente sincero da risultare emozionante: il pulsare dell'Andantino «Dite alla giovane – sì bella e pura», tutto legato, o ancora, nel finale, l'Andante sostenuto «Prendi, quest'è l'immagine», efficacemente coniugano verità scenica e sobrio impatto drammatico: una lezione di grande, modernissimo teatro musicale, che fa del rigore la cifra distintiva di un'interpretazione che va dritto al cuore del personaggio.

Le fa corona una distribuzione tutto considerato efficace, anche se piuttosto alterna nei ruoli secondari. L'Annina di Patrizia Tornatore, infatti, è preferibile alla usurata Flora Bervoix di Patrizia Gentile, come l'autorevole dottor Grenvil di Manrico Signorini e l'austero barone Douphol di Giovanni Bellavia si distaccano dai più compassati Bruno Lazzaretti e Italo Proferisce, nei panni rispettivamente di Gastone e del marchese d'Obigny. Nel ruolo di Alfredo Germont Stefano Secco trova uno dei suoi ruoli d'elezione: tenore dal timbro chiaro e dal fraseggio penetrante, dà voce ai «bollenti spiriti» di un personaggio ardente ed esuberante, fino al toccante duetto finale. Un altro cantante palermitano, il giovane baritono Vincenzo Taormina, impegnato nel ruolo di Giorgio Germont, figura ormai tra le certezze dell'ultima generazione: presenza scenica soggiogante, morbidezza dell'emissione, s'impone non solo nell'imponente duetto del secondo atto, ma anche nella carezzevole atmosfera della grande aria «Di Provenza il mare, il suol», autentica zeppa drammaturgica restituita con mirabile effetto di mezze voci.

Più composta avrebbe dovuto essere la prova del coro, diretto con sufficiente nitore da Piero Monti, mentre suscita riserve la concertazione del giovane e promettente Matteo Beltrami. Non già perché sia mancato adeguato sostegno ai cantanti o un'adeguata tornitura degli interventi solistici – basti citare per tutte la bella prova del clarinetto, nella scena in cui Violetta redige la lettera per Alfredo. La traviata infatti, come tutte le partiture del primo Verdi, richiede un'attenzione particolare alla parte ritmica che, se stancamente ripetuta, diventa inerte iterazione di un accompagnamento sempre uguale a se stesso, e dunque monotono e monocromo. Solo se e quando vibra il soffio vitale, pulsante del disegno melodico, l'accompagnamento orchestrale prende l'aìre e diventa respiro autentico della musica: esiti che la bacchetta di Beltrami raggiunge nel grande concertato del Finale II e in gran parte dell'ultimo atto, ma che cedono il passo in gran parte del primo atto e nel divertissement delle zingarelle e dei mattadori, affetto da un eccesso di esteriorità.

Nato per lo straripante talento scenico di Natalie Dessay, lo spettacolo presentato a Palermo, firmato da Laurent Pelly ma ora ripreso da Anna Maria Bruzzese, ha debuttato nel 2009 al Santa Fe Opera Festival ed è approdato per la prima volta in Italia al Regio di Torino, che lo ha coprodotto. Il Massimo di Palermo – con il palcoscenico torinese – è stato tra i primi teatri italiani ad ospitare gli spettacoli del regista francese, particolarmente versato nel repertorio francese ottocentesco. Era dunque prevedibile che un titolo come La traviata potesse essere consentaneo alle corde di un artista che da anni esplora la produzione francese da Hugo a Debussy – autori tra cui si colloca La Dame aux camélias di Alexandre Dumas fils, fonte del dramma verdiano. E proprio dal romanzo prende le mosse il regista francese, che nella scena del Preludio, prima descritta, contestualmente recupera tanto il lugubre rituale cimiteriale, su cui si apre il romanzo francese, quanto il flashback suggerito dal Preludio verdiano, che anticipa il clima rarefatto del finale. D'intesa con la scenografa Chantal Thomas, Pelly ambienta tutta la vicenda in un décor unico ma multifunzionale, una catasta di cubi che sono ora stilizzata rievocazione dei monumenti funebri del cimitero di Montmartre, ora palcoscenico per le feste in casa di Violetta o di Flora, ora fosca premonizione che fa da sfondo alle illusorie gioie campestri di Bougival; coperti da lenzuola bianche, sono infine vestigia di una casa abbandonata e pronta per essere alienata, candidi sudari destinati ad accogliere le spoglie mortali di Violetta. Anche i costumi, firmati dallo stesso regista, trasportano l'azione in una dimensione senza tempo, vagamente in bilico tra Secondo Impero e Terza Repubblica: nella Francia a cavaliere tra gli anni Settanta e Ottanta, dove il rutilante abito fucsia di Violetta anticipa la moda à l'espagnole in casa di Flora, con atteggiamenti ammiccanti che cocottes e cancaneuses impiegano per contendersi i favori di una società tutta maschile e fondamentalmente maschilista. E tanto più le feste sono esteriori – tanto da giustificare l'esplosiva risata della protagonista, da cui prende origine la prima festa – tanto più la catastrofe sarà tragicamente inesorabile: perché l'orizzonte è perennemente buio, salvo illuminarsi di turchese e d'ametista al principio del secondo atto, giusto il tempo di un'illusoria fuga dalla città in «ameni luoghi» dove sottrarsi al fardello del passato. Dai colori accesi del primo atto al bianco e nero del finale, screziato dal grigio del déshabillé di Violetta, il dramma verdiano rinnova i colori della camelia: di un «fior che nasce e muore», appassito sul far dell'aurora.

Giuseppe Montemagno

8/12/2013

Le foto del servizio sono di Franco Lannino - Studio Camera.