RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

DEL POETA È IL FIN LA A.I.

«Del poeta è il fin la meraviglia», scriveva Giovan Battista Marino fondando i criteri della poesia barocca: immaginare insomma un mondo più sfarzoso di quello reale, ritrarlo attraverso un gioco sapiente di metafore e iperboli, farlo percepire al lettore attraverso immagini destinate ad esaltare le capacità sensorie. Un secolo dopo – la musica s'incanala con ritardo nei solchi tracciati dalla letteratura – spetterà a Händel essere il Marino del teatro d'opera, la pietra di paragone del barocco del melodramma. E le meraviglie veicolate dalla musica del Grande Sassone saranno altrettanto estranianti dalla realtà, recando però in filigrana un'indagine dei sentimenti che è un primo passo verso i traguardi di Mozart. Esiste oggi un equivalente del “meraviglioso” codificato dal barocco? Forse sì, sembra suggerirci Louisa Proske, regista dell'Amadigi di Gaula che ha inaugurato l'edizione 2024 del Festival haendeliano di Halle, e si tratta dell'Artificial Intelligence: universo insieme creativo e spersonalizzante, simulazione d'intelletto umano all'interno d'un paradigma artificiale, che si accinge a scandirci un futuro all'insegna di meraviglie da laboratorio e iperboli algoritmiche. Ne scaturisce un allestimento a mezza via tra Konzept alla tedesca e spettacolarità all'americana (la Proske si divide tra Berlino e New York), dove una scenografia avveniristica ma dal forte segno estetico – la dobbiamo all'artista visivo Kaspar Glarner – incapsula i personaggi in una scatola scenica costituita da una teoria di processori, microchip, cavi elettrici: senza rinunciare, nel contempo, a un'attrezzeria da teatro “antico”, con oggetti ad alta densità semantico-arcadica come il ventaglio e l'assicella su cui sventola una farfallina.

Elegantissimo nei costumi – un incrocio tra barocco e postmoderno – dello stesso Glarner, sapientemente coreografato da Michael Sedlacek per movimentare un'azione altrimenti statica, e corroborato da sei eclettici danzatori-mimi (tre uomini e tre donne, ma giocando con tutte le “fluidità” statutarie dell'opera barocca), lo spettacolo ha dalla sua pure una bella dose d'ironia: l'immancabile deus ex machina dell'epilogo qui ha le fattezze della statua di Händel, così come campeggia nella piazza centrale di Halle. Sicché, dopo tanta fantatecnologia, l'ultima scena ci trasporta realisticamente nella Markplatz cittadina, a festeggiare il genius loci. In buca strumenti antichi che “pensano” moderno – la direzione di Dani Espasa punta sul ritmo narrativo più che su fondamentalismi filologici – e, in palcoscenico, un quartetto protagonistico ben differenziato: controtenore (Rafal Tomkiewicz, con qualche disomogeneità emissiva ma cantante-attore infaticabile), mezzosoprano en travesti (la corretta Yulia Sokolik), soprano antagonista dall'aggressiva coloratura (Franziska Krötenheerdt, in forma non ottimale, dunque tanto più apprezzabile per come è venuta a capo di una scrittura impervia), soprano più lirico e liliale (la giovanissima Serafina Starke, incantevole per grazia e scorrevolezza).

Amadigi ha rappresentato, nel festival di quest'anno, il primo tassello d'un percorso attraverso Händel e la Francia: il rapporto con la cultura d'oltralpe qui era relativamente labile (la fonte letteraria è un celebre testo del Cinquecento spagnolo, ma è la sua iniziale trascrizione librettistica in francese ad averlo sdoganato nel teatro d'opera), mentre si faceva più marcato nei due spettacoli del giorno successivo. Terpsicore, decentrata nel delizioso Goethe Theater di Bad Lauchstädt (località termale a una mezzoretta da Halle, dove l'inesausta missione teatrale goethiana diede vita a questo teatrino di legno in mezzo al verde), presenta il francesissimo involucro dell'opéra-ballet ed è, di fatto, un pastiche di musiche haendeliane e di Rameau. Regista-coreografo italiano che solo in Germania ha ottenuto il credito che meritava, Emanuele Soavi impagina uno spettacolo bifasico: sia sia per il suo sincretismo tra balletto classico e danza moderna, sia per la prima e la seconda parte nettamente distinte tra loro.

Nato come prologo per Il pastor fido (ma indipendente dall'opera-madre, come all'epoca usava), Terpsicore è per Händel un certamen dialettico, come lo sarà Il Trionfo del Tempo e del Disinganno: Apollo dialoga con Erato, musa della poesia lirica, sui massimi sistemi dell'estetica; ma l'arrivo di Tersicore, musa della danza, scompagina il quadro testimoniando il potere pervasivo dell'espressività coreutica. Scritto per Maria Sallé, epocale danzatrice e prima donna coreografa storicamente documentata, Terpsicore – nella rilettura di Soavi – è un laboratorio di sequenze gestuali, contaminazioni corporee, plastica destrutturazione di ogni canone ballettistico: Lisa Kirsch, nel ruolo che fu della Sallé, se ne fa veicolo con sensibilità moderna e fisicità avvolgente, supportata da un trio di danzatori-servi di scena (due italiani e una coreana) altrettanto imprevedibile e spiazzante. E il fronte canoro non è da meno, con le agilità timbratissime del soprano Hanna Herfurtner e l'ottima estensione – un mezzosoprano che trascolora nel sopranile – di Coline Detileul. La seconda parte, preceduta da un siparietto in prosa che fa molto Konzept, affianca ad alcuni iconici brani haendeliani (compreso Ombre pallide dall'Alcina) varie pagine di Rameau. I primi confermano la valentia delle due soliste vocali, i secondi danno agio di apprezzare la vivacità ritmica – un vantaggio per i danzatori – della Lautten Compagney Berlin, sempre valorizzata dalla concertazione di Wolfgang Katschner.

Un Händel ancora diverso – quello degli oratorî – ha dato vita al terzo appuntamento delle prime due giornate di festival. Si tratta della giovanile Esther, eseguita nel trecentesco duomo di Halle dall'eccellente ensemble vocale-strumentale britannico Solomon's Knot, guidato da Jonathan Sells (nella cultura celtica, il nodo di Salomone indica l'unione dell'umano con il divino): e il rapporto con la Francia è dato dal fatto che, al di là dell'addentellato biblico, fonte letteraria è la tragedia di Racine. Qui la teatralità era, in punto di diritto, assente. Ma, uscito dalla porta, il teatro rientrava dalla finestra: sia perché si è scelto di proporre la prima versione dell' Esther, ossia non ancora un oratorio ma un masque, sia perché i solisti del Solomon's Knot sono autentici cantanti-attori, anche se agiscono in forma di concerto (impagabile la mimica del tenore comprimario, peraltro formidabilmente sonoro, David de Winter). Impossibile citarli tutti: ma almeno l'eleganza gentile promanante dal canto della protagonista Zoë Brookshaw, la cupezza quasi christoffiana del basso Alex Ashworth, la perfetta differenziazione drammatica tra la tenorilità squillante di Xavier Hetherington, quella “di grazia” di Thomas Herford e quella baritenorile di Joseph Doody meritano uno specifico encomio.

Paolo Patrizi

3/6/2024

Le foto del servizio sono di Thomas Ziegler e di Anna Kolata.