RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Grandi Speranze

Esistono titoli d'opera il cui solo annuncio in cartellone è in grado di suscitare grandi speranze e notevoli aspettative: sono quei titoli che il pubblico ogni anno si augura di trovare, e che incidono molto sulla scelta di rinnovare o meno un abbonamento, specie coi tempi che corrono, tempi che intimano una drastica riduzione delle spese non strettamente necessarie. I teatri lirici lo sanno benissimo, e opportunamente non mancano di inserirne almeno uno o due per anno, insieme a titoli desueti e (talvolta giustamente) dimenticati, a opere nuove o che mancano all'appello da molto tempo. Naturalmente fa parte dell'operazione di marketing anche il prevedere per tali titoli cast di particolare interesse, o direzioni d'orchestra di alto livello, o in alternativa regie affidate a personalità di spicco del panorama nazionale o internazionale, e che per un verso o per un altro possono rivelarsi una garanzia per l'opera da rappresentare. In tal senso, Rigoletto fa certamente parte del nutrito gruppo di opere grazie alle quali al botteghino si va sul velluto, ma che di converso, e proprio per il loro essere universalmente conosciute alle orecchie di tutti i melomani grazie a miriadi di registrazioni di altissimo livello, sono estremamente rischiose per i paragoni che in maniera inevitabile si verificheranno, vuoi per la direzione d'orchestra, vuoi per i cantanti, vuoi per la regia e per la messinscena in generale.

Il Rigoletto proposto dal Bellini di Catania come penultimo titolo della stagione 2024 avrebbe avuto in teoria tutte le carte in regola per non deludere le speranze del pubblico: un protagonista d'eccezione, uno dei maggiori baritoni della scena mondiale, Amartuvshin Enkhbat, oggetto di autentiche ovazioni al Massimo di Palermo a gennaio, e la regia di un eminente esperto del personaggio, Leo Nucci, protagonista di ben «560 recite ufficiali nei più grandi teatri di tutto il mondo, solo come accenno di vanità», come scrive egli stesso nel libretto di sala, che aveva già firmato la regia per il Rigoletto andato in scena al Teatro Antico di Taormina nell'agosto del 2021, messinscena riproposta con opportuni adattamenti per questa nuova edizione catanese.

Tutto questo in teoria: di fatto Amartuvshin Enkhbat ha dato forfait quasi a ridosso della prima, ed è stato sostituito da George Gagnidze, del quale parleremo più avanti, e la regia di Leo Nucci, coadiuvata dalle belle scene di Carlo Centolavigna, dense di riferimenti artistici, dal Ratto di Proserpina del Tiepolo al Ratto delle Sabine del Giambologna, quasi a porre l'accento sul motore della tragedia, il ratto di Gilda, e dagli accattivanti costumi di Arturo Cabassi, ha svelato in maniera abbastanza chiara sia la sua originaria provenienza da un teatro all'aperto, sia una ricercatezza che si è tradotta in farragini che hanno reso lunghissima, quasi estenuante la rappresentazione, giacché il cambio scena tra la prima e la seconda parte dell'atto primo, solitamente brevissimo, si è tradotto quasi in un intervallo supplementare, con un conseguente aumento di tutti i tempi morti certamente poco gradito da un pubblico numeroso ma certo non da sold out, che comunque non ha mancato di plaudire calorosamente alla rappresentazione e all'impegno di tutti gli artisti.

Sul versante più propriamente registico, vale a dire quello della sinergia tra buca e palcoscenico, dell'impianto luci in generale, e dei movimenti sulla scena, bisogna dire che lo spettacolo si è rivelato abbastanza disomogeneo, sia per un eccessivo uso di attrezzerie che ha limitato, complici anche delle scene abbastanza ingombranti, lo spazio sul palcoscenico, almeno nelle parti che si svolgevano nel palazzo ducale, sia per le luci di Bruno Ciulli prive di qualsiasi funzionalità ai fini drammatici, sia soprattutto per le movenze dei cantanti, sovente ai limiti di un'oleografia oggi alquanto scontata.

Né le cose sono andate meglio sul versante orchestrale: la bacchetta di Jordi Bernàcer, direttore forse più versatile nel repertorio sinfonico che in quello lirico, ha impresso a tutta l'opera tempi alquanto penalizzanti, che andavano da velocità che lo stesso Toscanini avrebbe ritenuto eccessive, come nel Preludio dell'atto primo, dove anche qualche attacco è risultato alquanto impreciso, a rallentamenti inopinati, come all'inizio del quartetto del terzo atto, tutte scelte che, unite a un non accorto dosaggio delle sonorità, tendenti spesso a soverchiare i cantanti, già messi a dura prova da tempi così stretti, hanno impedito a un'orchestra esperta e agguerrita come quelle del nostro teatro di dare il meglio di sé.

Fortunatamente sul versante vocale l'allestimento è riuscito a riscattarsi, a partire dal coro istruito come sempre da Luigi Petrozziello, e dai comprimari, in particolare il basso Luca Dall'Amico, un Monterone di grande impatto scenico, dotato di una voce potente e dal timbro bronzeo, che è riuscito a infondere al suo personaggio tutta la cupa ombra della maledizione che avvolgerà Rigoletto fino al tragico finale. Di discreto livello anche Ramaz Chikviladze (Sparafucile), Elena Belfiore (Maddalena) e Fabrizio Brancaccio (Marullo).

Il tenore Ivan Magrì, nei panni del Duca di Mantova, dopo un esordio non proprio felice in “Questa o quella per me pari sono”, è andato via via crescendo a partire dal duetto con Gilda “Ah, inseparabile d'amore il dio”, trovando poi accenti di grande dolcezza in “Parmi veder le lagrime”, fino al quartetto del terzo atto “Bella figlia dell'amore”, dando prova di una maggiore versatilità nei momenti di distensione, dove la sua vena elegiaca da tenore lirico trovava modo di dispiegarsi pienamente.

Il giovane soprano albanese Enkeleda Kamani è riuscita a rendere tutta l'ingenua freschezza e tragicità di Gilda, grazie a una voce di notevole estensione, a una tecnica impeccabile e a una chiarissima dizione che le hanno permesso di affrontare senza difficoltà sia l'impervia “Caro nome”, cantato con mezze voci da manuale, estrema morbidezza e acuti sempre ben coperti e precisione nell'esecuzione degli abbellimenti, sia nelle scene più drammatiche, come la confessione dolente di “Tutte le sere al tempio”, e il successivo duetto col padre nella stretta che conclude il secondo atto.

Il baritono georgiano George Gagnidze non ha deluso affatto le aspettative: cantante dotato di una notevole presenza scenica e di una voce brunita, di una zona media dalle ampie e possenti sonorità da vero baritono drammatico, oltre che di una dizione impeccabile e di una cura attenta all'aspetto più propriamente attoriale di un personaggio complesso e insidioso come Rigoletto, si è distinto per un declamato ampio e scultoreo, ma anche per una vena elegiaca che gli ha permesso di trovare i giusti accenti sia nel duetto con Gilda del primo atto, sia nel finale dell'opera, dove la disperazione paterna è emersa in tutta la sua tragica potenza. Di notevole impatto emotivo tutta la scena terza del secondo atto, dove voce e movenze hanno costituito un vero e proprio climax drammatico, il cui culmine è stato il celeberrimo “Sì, vendetta, tremenda vendetta”, che ha scatenato l'entusiasmo dell'uditorio, alle cui reiterate richieste di bis Gagnidze ha risposto con signorile generosità riproponendo il brano che costituisce, almeno per il grande pubblico, la quintessenza di Rigoletto.

Repliche fino al 6 novembre.

Giuliana Cutore

30/10/2024

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.