RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Muscato sì, Muscato no:

ma Rigoletto stravince a Torino

Rigoletto è una di quelle opere di cui si sa o si crede di sapere tutto. Non che la popolarità del titolo (non sfugga il doppio senso…) sia ingiustificata; tutt'altro. Il problema semmai è che è fin troppo conosciuto. Fin troppo allestito. Per questo, forse sentendosi in dovere di dire la loro… a modo loro, fior di registi si scervellano per trovare ogni volta una via diversa per evidenziare questa o quella faccia della medaglia (chi si scorda di Bregenz 2019?). Dopo aver curato la regia dei primi e per ora unici allestimenti dell'Incoronazione di Dario di Vivaldi (2016) e dell'Agnese di Paer (2019) al Regio di Torino, Leo Muscato torna per la terza volta in questo Teatro confezionando quello che per lui è il suo secondo Rigoletto, dopo quello romano del 2014, sempre coadiuvato dal suo team: Federica Parolini (scene), Silvia Aymonino (costumi) e Alessandro Verazzi (luci).

Muscato non si esime dal dire la sua, da un lato volendo rimanere fedele allo spirito, più che alla lettera, di Verdi-Piave, dall'altro finendo coll'essere più verdiano di Verdi. Cosa non sempre positiva. Eppure, a fronte dei dubbi che qui lo scrivente solleva e oppone, il lavoro di Muscato piace mediamente al pubblico, che gremisce tutte le recite facendo registrare il pienone ad ognuna di esse. Al centro è l'idea di deformità, che Hugo aveva sdoppiata in fisica con Le roi s'amuse (1832) e in morale con Lucrèce Borgia (1833). Curioso che i rispettivi adattamenti lirici siano stati inscenati a un mese di distanza l'uno dall'altro, uno a Roma, l'altro a Torino: quasi una sorta di fil rouge hugoliano a legare assieme due capitali d'Italia.

Deformità, si diceva, rappresentata da uno specchio opaco montato su una struttura quasi verticale scura (una sorta di muro divisorio variamente utilizzato), che distorce le immagini e le ripropone diffratte ma soprattutto “fratte”, come le identità del Duca, che fuori dal suo palazzo assume i travestimenti di studente e di «semplice officiale di cavalleria», e di Rigoletto, che è buffone di corte, padre protettivo ai limiti (anzi, oltre i limiti) dell'ossessione, vendicatore spietato, e di cui non sappiamo nemmeno il nome, celato sotto il nomignolo di Rigoletto che in origine era Triboulet, poiché sprofondato «nel borron de' triboli»: e su questo Muscato & Co ci giocano, mostrandolo non tanto gobbo, quanto affetto da lieve zoppia e da alopecia. La tuta e il jester's hat rossi vengono nascosti e alternati con un cappotto a quadri e un cappello. Il Duca è invece in completo color panna e Church's bianche-marroni; tutto è ambientato, a detta di Muscato, nella decadenza della belle époque (ma Sparafucile si avvolge in un ferraiolo di Loden; che poi si faccia riferimento nella conferenza stampa e altrove agli anni Venti-Trenta è un granciporro), dove il disgregarsi dell'ordine sociale e il sopravvivere di una nobiltà di nome ma non più di rango, di proustiana memoria, può ammettere la presenza di un Hop Frog alla Poe, «un buffone per farli ridere e […] per riderne» (trad. Delfino Cinelli), coi cortigiani in marsina nera e gorgiere mascherati da suini (e Circe ov'è?) intenti a gozzovigliare in un palazzo più evocato che ricreato, con modernissimi divani, pouf e poltrone, rossi come il foyer del Regio, montati su rotelline, pratici a spostarsi, su un lucido e quanto mai cupo pavimento nero, ma antiestetici a vedersi. Insomma, accostamenti poco coerenti nel loro insieme e poco inquadrabili in uno spazio-tempo sia pure trasposto. E si potrebbe continuare: Gilda, in abito azzurro alla Wendy di Walt Disney, ospite di un convitto di suore (che da libretto è «in un remoto calle»… un convitto di suore…), che dorme nel suo lettino allineato accanto agli altri in una camerata di educande (che non urlano né si scompongono quando la loro compagna viene rapita dai suini di cui sopra…) alla quale chissà come però ha accesso anche Rigoletto (… ma che si scandalizzano quando entra lui, con tanto di suora che prova a discacciarlo…), sedotta dal suo Maldè nella cappella dell'istituto, al lume dei candelabri che in qualche modo richiamano il luogo del loro primo incontro, («Tacqui che un giovin ne seguiva al tempio») – e questo è suggestivo: potrebbe essere una cappella accessibile agli esterni dove le fanciulle vengono condotte alla Messa –; Giovanna però non riceve il suo viatico per il silenzio. Monterone, dopo aver maledetto Rigoletto, schianta al suolo stecchito (sic), portato via a braccia, e riapparirà quale fantasma alle parole «Quel vecchio maledivami!»; e Rigoletto lo sentirà come proiezione della sua mente al secondo atto, portandosi le mani alle orecchie. La stamberga di Sparafucile, attorniata da donne di dubbi costumi, è in realtà una fumeria d'oppio, riferimento a C'era una volta in America, e in essa il delitto non lo consuma Sparafucile, bensì sua sorella (ri- sic), che, armata di stiletto, prima guarda bene negli occhi Gilda che svela la sua chioma bionda levandosi il cappello del padre, poi le affonda nel ventre la lama con un'innaturale lentezza, quasi un gesto rituale, la celebrazione di un sacrificio: ed è forse ciò che il regista aveva in mente, un sacrificio per gli altri in una visione cristologica di Gilda (parole sue), desunte dal suo «Dio!… / Loro perdonate». Oggi si direbbe “un po' too much ”…

La piattaforma girevole, già sperimentata pochi mesi orsono per La forza scaligera, che tanto aveva fatto stupire e ben parlare, torna anche qui, e grazie ad essa è possibile vedere il dentro e il fuori sia del convitto, con l'accostarsi da fuori del Duca, sia della fumeria nel celebre quartetto; l'idea è ingegnosa, assieme alla suddetta parete a specchio scomponibile che modella spazi cangianti; ma a fronte di soluzioni dotate senza dubbio di praticità, essenzialità e di una certa eleganza, visivamente accattivanti – come il tableau vivant che apre l'opera, in un tripudio di ori, banchetti e movimento –, resta il dubbio se sia stato davvero reso un servizio o meno alla più che oliata e funzionale drammaturgia originale, soprattutto in vista delle scolaresche notate in sala, che probabilmente avranno del Rigoletto un imprinting fuorviante. Non che si debba far l'opera solo per esse, o solo per chi non l'abbia mai vista; ma in nome del modernizzare il melodramma, del renderlo affine alla sensibilità contemporanea, insomma del “far parlare l'opera oggi”, si rischia talvolta di zittirla ancor di più. Parere personale.

Il côté musicale mostra motivi d'interesse maggiore, almeno alla recita di domenica 9 marzo 2025 (centoottantatreesimo compleanno del debutto del Nabucco: quando si dicono le coincidenze; la prossima e conclusiva, l'11 marzo, sarà invece il centosettantaquattresimo proprio di Rigoletto: Fenice, 11/03/1851). La direzione di Nicola Luisotti valorizza soprattutto la dimensione sinfonica, e in questo talvolta lo strumentale tende a sovrastare coro e solisti, con entusiastici quanto un po' eccessivi ripieni orchestrali. L'impiego fin troppo marcato delle percussioni è un dato evidente ma per fortuna limitato agli effettistici, trascinanti finali d'atto, che spingono il pubblico ad applaudire anche prima del termine della musica; altrove la concertazione è equilibrata, e dal dettaglio traspare uno studio accurato della partitura, che si evince dai numerosi casi in cui le raffinatezze strumentali di Verdi vengono poste in primo piano, donando loro un rilievo difficilmente percepito in altre esecuzioni. Il «Perdono, pietà» di Rigoletto è commentato non solo dal violoncello solista, ma da un corno inglese che raddoppia in terze o in ottava la linea vocale, e che qui viene udito distintamente, formando quasi un concertino di baritono, violoncello e corno inglese obbligati davvero notevole; altrettanto dicasi per il rilievo dato all'oboe sotto il «Ned ei potea soccorrerti», che tiene la dominante di La bemolle, o alla tromba sotto «te colpire il buffone saprà», con quel cipiglio marziale che allude già alla risoluzione che balena in testa a Rigoletto: un'esecuzione.

Raffinatezze strumentali pensate da Verdi e poste non a caso in partitura – ma non si finirebbe più di elencarle –, e quindi non a caso rilevate da una direzione, si diceva, attenta a questi preziosi particolari e che può contare sulla collaborazione dell'ottima Orchestra del Regio. Peccato per alcune aperte concessioni a puntature di tradizione che invece sulla partitura non figurano, e anche qui non a caso: il Sol acuto al termine di Pari siamo! e il La bemolle acuto al termine di Sì, vendetta: se si può soprassedere al «Gilda! Gilda!» sussurrato e vivaddio non gridato come all'epoca gigiona del trentatré giri, fior di direttori (Muti, Gatti) hanno motivato drammaturgicamente e in alcuni casi armonicamente l'inappropriatezza di queste scelte, per quanto esercitino da sempre un effetto galvanizzante sul pubblico, compresa questa volta.

Da un lato è anche una vetrina per un baritono come George Petean, che nella rosa delle molte caratteristiche positive del suo Rigoletto – valida interpretazione attoriale, beninteso secondo i canoni registici imposti (e in questo la poca fluidità di movimenti potrebbe essere condizionante), attenzione alla parola scenica marcata da un timbro scuro interessante, con quella ruvidità che anche nei momenti di maggiore dolcezza non manca di sottolineare il carattere ambiguo del personaggio – può far sfoggio di un registro acuto perfettamente dominato, molto ben proiettato e che conserva la dovuta scurezza. E nonostante questo, un gusto di fondo lo porta a non esagerare e a donare, sia al Deh, non parlare al misero, sia al Cortigiani, un equilibrio interpretativo che lascia alla musica il compito di esprimere il non detto. Ma un Rigoletto “educato” forse non è Rigoletto…

Giudizio ampiamente positivo anche per il Duca di Piero Pretti. Colpiscono il suo squillo e l'efficace proiezione della voce in maschera, nonché l'ottima tornitura della sillaba, sostenuta da un'intenzione convinta; permane, come altre volte osservato, una certa uniformità di colori e un gioco non molto vario di mezze voci, per quanto in Ella mi fu rapita… Parmi veder le lagrime la gamma emozionale che trascorre dall'ira alla tenerezza venga espressa con persuasiva sincerità di intenti. Ed è infatti più qui che in Questa o quella o nella fin troppo famosa La donna è mobile, peraltro eseguite con sicurezza e col giusto grado di spavalderia, che si dispiegano le sue non poche risorse.

Gradito ritorno anche per Giuliana Gianfaldoni. Limpidezza di strumento, facilità di salita in acuto, aggraziata leggiadria nelle volatine di Caro nome e rotonda duttilità in Tutte le feste, cantata nella camera da letto del Duca, gliptoteca di torsi e reperti, unite a una recitazione spontanea e credibile, ne fanno un'interprete di riferimento per questo ruolo, che frequenta da anni e la cui familiarità si traduce in un'evidente aderenza alla psicologia del personaggio, anche in un contesto registico non ortodosso nel quale come in questo caso si trova a muoversi.

Discorso a parte merita lo Sparafucile di Goderdzi Janelidze. La dizione non è sempre ottimale, e condiziona anche un po' l'emissione talvolta non bene a fuoco, ma la timbratura da autentico basso, con sicuri affondi al grave – il Fa di «Sparafuc -i-l» – e coadiuvata da un'appropriata cassa di risonanza, ne fanno un professionista di sicuro valore; lo si apprezza maggiormente al terzo atto, la voce forse venendo troppo dispersa al primo. Sorella scenica di malefatte è la Maddalena di Martina Belli, nomen omen che, se da un lato non lesina le sue grazie in reggicalze e con un grazioso fiore rosso che tra i capelli corvini ricorda la Lola Montez di Stieler, dall'altro ammalia con un velluto vocale caldo, di gradevole spessore, e con una sapiente recitazione.

Complessivamente valide le parti di contorno, a cominciare dall'ottimo Monterone di Emanuele Cordaro, dalla considerevole cavata vocale. A seguito di improvvisa indisposizione, la pur valida Siphokazi Molteno, ascoltata il 7, viene sostituita nella recita in esame dalla graditissima Carlotta Vichi nel ruolo di Giovanna, che si conferma come sempre interprete di pregio. Molteno, così come Janusz Nosek (un promettente Marullo da tenere d'occhio), Daniel Umbelino (Matteo Borsa), Tyler Zimmerman (Conte di Ceprano) e Albina Tonkikh (Contessa di Ceprano), salgono sul palcoscenico in rappresentanza del Regio Ensemble. Chiara Maria Fiorani interpreta il Paggio, mentre Mattia Comandone, elemento del Coro del Regio, l'Usciere. E questo permette di complimentare una volta di più quest'ottima compagine corale, qui limitata alle sole frange maschili, che debitamente istruita da Ulisse Trabacchin perviene ad un esito artistico di grande pregnanza, sia sul palcoscenico, sia fuori, quando è chiamata ad imitare l'ululato del vento. Peccato per gli stereotipati movimenti e le coreografie un po' ridicole che sono chiamati a fare, come il mimare tutti assieme il salire una scala o il tremare dietro i giornali spiegati, che tentano di leggere indifferenti al tonante La ra di Rigoletto.

Gli applausi fragorosi, a fine spettacolo come a scena aperta, promuovono a pieni voti la completa riuscita della recita.

Christian Speranza

18/3/2025

Le foto del servizio sono di Mattia Gaido e Daniele Ratti.