Musica della memoria
A Firenze un Wagner metafisico e astratto
Per l'allestimento del Tristan und Isolde di Wagner, andato in scena nel glorioso teatro del Maggio Musicale prima del più volte annunciato trasferimento nella nuova struttura dell'Opera di Firenze, Stefano Poda crea un allestimento onirico, dominato da una clessidra immaginaria la quale sgrana il proprio inesauribile contenuto quasi ad annientare lo scorrere del tempo, da una pedana praticabile sospesa che si alza e si abbassa e da una sfera a simboleggiare i poli opposti del giorno e della notte. Lo spazio scenico diviene una stanza della memoria, afferma il regista, il quale riesce a veicolare con grande acume un'infinità di suggestioni. Lo spettatore diviene consapevole dell'immensa portata del dettato wagneriano, della sua capacità di condensare l'intera tradizione del teatro musicale aprendo contemporaneamente il sipario sulla modernità. L'immagine di Proust sembra balenare nelle nebbie della rappresentazione, un dialogo continuo fra passato e presente abita le pagine dello scrittore francese, così come l'universo wagneriano. Apparizioni di strani personaggi danno vita a rituali misterici dal significato arcano. Ombre e miraggi, quasi doppi dei personaggi in scena, evocano quello straordinario gioco sulla corruttibilità e l'immortalità che è L'invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares. Se l'amore sfugge alla nostra vicenda terrena, solo il vagheggiamento di un'esistenza sublimata nell'arte può restituire significato al ciclo inarrestabile della vita e della morte. Il materiale musicale, così come quello narrativo, condivide la medesima aspirazione a trascendere i limiti dell'umano e del tempo. Trasportando il discorso in ambito filmico si potrebbero individuare affinità atmosferiche con L'anno scorso a Marienbad, il capolavoro di Resnais. La realtà diviene un luogo della mente, il fascino ipnotico della messa in scena ci spinge a dubitare di ogni cosa, trasportandoci in una dimensione altra interna alla coscienza. L'intercambiabilità dei discorsi nell'opera cinematografica trova affinità con la poetica del Tristan, dove le parole del duetto d'amore potrebbero ugualmente appartenere all'uno o all'altra senza mutare il significato del testo. Il dramma è tutto interiore, la vicenda si contrae sino a raggiungere l'essenza. Particolarmente raffinato il gioco delle luci, in grado di donare valori pittorici alla scena delineando un universo di metafisico nitore. Un esercizio di stile, si potrebbe obiettare, ma è indubbio che lo spettacolo sia bello dal punto di vista visivo e prodigo di suggestioni. Forse in qualche momento sarebbe stato opportuno rinunciare alla staticità dogmatica, come nel combattimento dell'atto terzo, troppo rituale nel suo svolgimento ed in contrasto con l'impeto della musica.
Nel suo trasformare il Tristan in una sorta di liturgia profana, per molti versi affine alla sacra ritualità del “Parsifal”, la direzione di Mehta sembra aderire perfettamente alla concezione di Poda, salvo poi constatare alcune debolezze di fondo. A tratti l'eccessiva ieraticità spegne gli impeti della scrittura wagneriana, come è evidente nei monologhi di Isolde nel primo atto, oppure all'inizio del duetto d'amore nel secondo. Non un dramma di brucianti passioni dunque, ma una vicenda astratta, fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni, per usare una celebre espressione shakespeariana. Il tessuto musicale si disperde in un lirismo decadente e ondivago, dalla trasparenza cristallina che certo agevola i cantanti, ma rischia di sacrificare il sentimento in favore di un'estetica del suono a volte fine a se stessa. Il meglio viene nel terzo atto, nel quale l'estrema attenzione al particolare fa risaltare dettagli che solitamente si perdono nel magma sonoro, senza per questo abdicare al pathos in maniera eccessiva. Da lodare la prova dell'Orchestra, sempre attenta e flessibile nel seguire le intenzioni del suo direttore. Lioba Braun, al suo esordio come Isolde, non ha autorevolezza e statura interpretativa sufficienti a reggere il ruolo. La voce non è sempre omogenea, anche se risulta abbastanza corposa al centro, e gli estremi acuti risultano sovente forzati. Meglio il Tristan di Torsten Kerl, il quale supera indenne le difficoltà di una parte fra le più impervie dell'intera storia del teatro musicale. All'inizio del terzo atto, nel risveglio dell'eroe morente, mostra qualche lacuna tecnica dal punto di vista del fraseggio, poi si destreggia bene nella lunga serie di eccessi e ripiegamenti che scuotono il protagonista. Gli acuti ci sono, quasi tutti squillanti, e la linea di canto è sufficientemente solida. Forse è solo troppo preoccupato di giungere alla fine per trasmettere in maniera forte il progressivo e allucinato disgregarsi di una coscienza. Disastroso Juha Uusitalo, il quale nelle ultime due recite sostituiva Martin Gantner nel ruolo di Kurwenal. Più che cantare grida, ed è in costante difficoltà anche nei passaggi meno impegnativi. Un vero peccato, visto che lo ricordavamo Wotan più che dignitoso nel “Ring” fiorentino di qualche anno fa. Evidentemente la voce ha risentito pesantemente degli eccessivi cimenti wagneriani. Julia Rutigliano ha un timbro troppo chiaro per essere una Brangäne convincente, mentre il Re Marke di Stephen Milling è ottimo nel monologo del secondo atto, regale ed umano come si conviene, risultando appena un poco appannato nel finale. Bravi infine Kurt Azesberger (Melot) e Gregory Warren nel duplice ruolo del giovane marinaio e del pastore.
Riccardo Cenci
10/5/2014 La foto del servizio è di Simone Donati Terra Project Contrasto.
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