Le Trouvére
al Verdi Festival 2018
Al Verdi Festival la prima messinscena dell'opera LeTrouvère di Giuseppe Verdi, che non è altro che la versione francese del più celebre Il trovatore. Il successo romano dell'opera, l'originale in italiano, fu tale che sia l'Opéra sia il Théâtre des Italiens decisero di metterla in scena. Verdi pretese le assicurazioni sulla compagnia, memore di opere precedenti non ben eseguite. Dopo lettere non proprio gentili e una causa, persa da Verdi, fu firmata la pace, la quale consisteva nella commissione da parte dell'Amministratore dell'Opéra dell'adattamento de Il trovatore per le scene parigine con l'aggiunta di un balletto; in cambio Verdi ottenne un pagamento come per un'opera nuova e ottenne inoltre di sovrintendere allo spettacolo. Le differenze, che sono sostanziali, consistono oltre alla traduzione in francese del libretto e l'aggiunta del balletto, nelle modifiche delle battute che lo stesso compositore era solito fare nelle sue revisioni, la soppressione della cabaletta di Leonora al IV atto, e un rifacimento del finale. Azucena è il personaggio che risente con maggiore incisività della nuova versione, la cui scrittura è letteralmente diversificata nelle cadenze e nel registro grave, sicuramente per venire incontro alle esigenze di Adelaide Borghi-Mamo. Nel finale invece c'è l'inserimento del coro fuori scena che canta il Miserere e il cambio di battute del libretto, che ampia la scena conferendole un tratto drammatico molto più incisivo.
Dello spettacolo non ci sarebbe nulla o poco da dire poiché è il solito stile di Robert Wilson, ideazione, regia, scene e luci, in pratica l'anti teatralità, che si trasforma in una mise-en-scène statica (come un teatro kabuki) e nella quale sarà la musica a far percepire i sentimenti dei protagonisti. Idea rispettabile ma che non condivido affatto. L'impostazione registica a mio avviso ha messo spesso a disagio i cantanti, che erano fermi e in pose assurde, dovevano solo cantare, senza uno sguardo, un passo e un cenno del corpo. La scatola cubica collocata sul palcoscenico, con finestrelle varie, trova un appena accettabile riscontro solo quando è illuminata, ma quasi tutto si svolge al buio (Il trovatore è un'opera notturna). I neri costumi di Julia von Leliwa non lasciano traccia anzi talvolta sono goffi, e il pesante trucco sui cantanti di Manu Halligan ha uno scarso effetto. Belle ma poco credibili le videoproiezioni, che riproducono squarci cinematografici di una Parma a inizio secolo.
Wilson ci ha abituato da molti anni a questo tipo di spettacolo, e pur riconoscendo che ogni regista e artista ha la sua linea interpretativa, Wilson è fermamente legato ai suoi principi, tanto da essere sempre uguale. Non c'era nulla di differente in quest'allestimento dai precedenti visti nelle ultime stagioni, la trilogia di Monteverdi alla Scala o il Macbeth al Comunale di Bologna. Il teatro, in particolare quello d'opera, necessita di comunicazione e l'apporto musicale non può sostituire la recitazione che è elemento imprescindibile da sempre e volutamente curato dai compositori: Verdi, e non solo, docet! Inoltre, la versione francese dell'opera implica l'esecuzione del balletto, un segmento di circa venti minuti, che è stato realizzato in una sorta di pantomima con pugili in fase di combattimento che rasentava il ridicolo. Alla seconda recita un flebile dissenso ma null'altro, tuttavia gli applausi erano rari e contenuti.
Il versante musicale è di tutt'altro livello, a cominciare dalla bacchetta di Roberto Abbado, il quale trova una cifra interpretativa molto affascinante, ricca di sfumature e colori. Colpisce positivamente l'atmosfera generale con cui il bravo concertatore diventa eccellente narratore attraverso un variegato linguaggio e un suono rarefatto, la differenza nella versione francese è evidente, in cui colpiscono sia la frenesia dei momenti concitati sia il lirismo, mai sdolcinato, nei passi più romantici. Brillante e dinamico nel grande balletto al quale ha conferito uno stile giustamente pomposo senza dimenticare che l'autore compose pagine eccelse per la danza. Di rango sia la prova scintillante dell'orchestra del Teatro Comunale di Bologna sia il Coro, sempre del Comunale, diretto da Andrea Faidutti, che onora il compito con assoluta professionalità e stile impeccabile.
Misurato e composto il Manrique di Giuseppe Gipali, il quale canta anche con gusto e senza pecche, ma lo stile è troppo composto e manca il lato eroico del personaggio oltre a una limitata possibilità nel settore acuto. Roberta Mantegna, Léonore, avrebbe una voce ideale per il ruolo, infatti la corposità le permette di eseguire un eccellente recitativo, arie e duetti di valente significato, tuttavia è carente l'utilizzo dei colori e di un fraseggio più rifinito, poiché sovente l'esecuzione rasenta la ruotine. Ma la giovane cantante dovrebbe avere il tempo per rifinire questi aspetti.
Bella prova quella di Franco Vassallo, Comte de Luna, dotato di voce ben timbrata, caratterizzata da ottima sonorità e volume importante. Il cantante, mai sopra le righe, pur dimostrando capacità nobili, esprime con valente perizia il ruolo dell'innamorato, attraverso un prezioso legato e una morbidezza nell'emissione che producono una prova vocale di alto livello. Nino Surguladze, Azucena, sulla carta non avrebbe le caratteristiche del ruolo, almeno per come lo intendiamo nella versione italiana. Tuttavia nella versione francese realizza una linea sia interpretativa sia vocale che le permette di trovare nelle parti gravi una rilevante sicurezza e nell'insieme esprime una positiva omogeneità nei registri. Il personaggio è sicuramente molto studiato e calibrato, ma è anche il più penalizzato dalla regia.
Marco Spotti è un Fernand corretto e professionale, cui manca quell'impostazione peculiare per eseguire il difficile racconto del primo atto. Bene i personaggi negli altri ruoli: Tonia Langella è una precisa Inès, Luca Casalin il noto efficace Ruiz e Messager, Nicolò Donini un corretto Vieux bohémien.
Al termine applausi per i cantanti, ma molto sconcerto per la messa in scena.
Lukas Franceschini
24/10/2018
Le foto del servizio sono di Lucie Jansch.
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