Barcellona
Il trovatore visto da Goya
Joan Anton Rechi e i loro collaboratori hanno rielaborato (praticamente dal nulla) l'anteriore allestimento de Il trovatore ambientato all'epoca della guerra di Spagna contro i francesi nei primi anni dell'Ottocento. Gli orrori visti e narrati scuotevano il grande pittore Francisco de Goya che ne faceva l'oggetto dei suoi lavori più moderni e rivoluzionari. Qui lo vediamo nell'atto di dipingere i nobili ma guardandosi attorno e meditando sulle ingiustizie della guerra. La serie che ha per titolo, appunto, I disastri della guerra viene proiettata – non tutta ovviamente – sullo sfondo del palcoscenico mentre davanti scorrono i titoli – talvolta difficili da interpretare – che l'artista dava ai singoli pezzi. Questa sarebbe l'idea e magari la parte buona. Questo Goya però si limita ad andare e venire, a guardare con aria tra compunta e scettica i fatti o i personaggi, per il resto quasi tutte le indicazioni del libretto vengono ignorate o alterate: diciamo, per esempio, che Verdi sapeva quando voleva che si presentasse il Conte di Luna ma qui lo fa durante l'aria precedente di Leonora in atteggiamenti “ambigui” per quanto riguarda Ines. C'è inoltre una vera smania per le sedie che fungono anche da pira, e alla fine il Conte accende un fiammifero per bruciare insieme ad Azucena, che, manco a dirlo, è sempre mezzo sbronza per il rimorso e l'ansia di vendetta. Poi vi sono momenti meno “mossi”, e forse saranno stati “noiosi” per alcuni, che vengono “animati” da personaggi che non c'entrano per niente: un esempio supremo la vivandiera maltrattata dagli sbirri e ferita da Ferrando, poi consolata da Goya. Mi viene alla memoria il paggio Oscar del Ballo quando dice più che abbastanza ho detto.
La direzione di Daniele Callegari era buona routine, vivace, magari troppo più di una volta, tempi prestissimi e dinamica un po'esagerata che nei cori – in particolare quello celebre della zingarella e quello dei soldati all'atto terzo – era pericolosamente vicina alla banda del villaggio. Bene l'orchestra e molto bravo il coro istruito da Conxita García.
Due compagnie di canto con le ormai consuete defezioni dell'ultim'ora per motivi vari. Così Marianne Cornetti canterà otto recite come Azucena in dodici giorni, e una sola verrà affidata al mezzosoprano russo Larisa Kostyuk. Il pubblico la premia con le ovazioni più lunghe ma lo stato vocale è precario, con acuti stimbrati e più di una volta gridati, note di petto per gravi che altrimenti non vengono fuori, un'interpretazione sopra le righe – in una recita urlava bastardo! a Ferrando alla fine del quadro primo dell'atto terzo. Carlo Colombara non si trova nel miglior momento vocale e non fa grande impressione come Ferrando, benchè sempre più interessante del solido ma più che monotono Marco Spotti. Artur Rucinski è un Conte molto bravo, di non troppo volume, ma di bel colore, estensione adeguata, canto senza cedimenti e nobile di aspetto e d'interpretazione. Con più voce, ma di meno qualità e con un acuto che incomincia ad aprirsi, perdere colore e stabilità, George Petean campa un Luna vociferante e poco distinto.
Marco Berti ripete il suo Manrico di anni fa, tutto muscoli e volume, spingendo in più di un'occasione e assolutamente inespressivo. Piero Pretti, che debutta all'ultimo momento, lo fa bene, con degli acuti precisi ma non svettanti, centro debole, voce di bel colore ma essenzialmente lirica; il fraseggio è al momento generico ma non letargico, come anche il suo comportamento sul palcoscenico. Tamara Wilson riconferma nei panni di Leonora le sue grandi qualità, forse con meno volume che nelle stagioni precedenti, ma di tecnica e stile sicuro. Nello stesso ruolo si presentava per la prima volta Kristin Lewis, che ne era l'esatto contrario in tutto, dimenticando o sbagliando parole, un italiano da perfezionare, dei gravi inesistenti o artefatti, poche messe di voce e per niente eteree, inabile per quanto riguarda agilità e ornamenti, e le cabalette ne hanno fatto le spese. Molto bene María Miró (Ines) e bene Albert Casals (Ruiz). Il personaggio muto – per forza – di Goya veniva interpretato dall'attore Carles Canut.
Jorge Binaghi
20/7/2017
Le foto del servizio sono di Antonio Bofill.