RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il trovatore a Torino

Il Teatro Regio di Torino inaugura la stagione 2018/19 con Il trovatore di Giuseppe Verdi. L'opera, datata 1853, su libretto di Salvatore Cammarano, appartiene a quel fecondo e felice periodo produttivo del cigno di Busseto che portò, tra il 1851 e il 1853, alla composizione della cosiddetta “trilogia popolare”: Rigoletto, Il trovatore, La traviata. “Popolare” per diverse ragioni. Dopo la predilezione, nei primi lavori, per grandi figure di spicco – condottieri (Attila), fatti d'arme (I lombardi alla prima crociata , La battaglia di Legnano), figure divorate da passioni estreme (Macbeth, Giovanna d'Arco), ecc. –, i protagonisti diventano, giustappunto, personaggi d'estrazione più umile: un buffone di corte (Rigoletto), il figlio di una zingara (Manrico), una mantenuta d'alto bordo (Violetta). Un trittico certo non progettato a tavolino, ma nato sull'onda di soggetti ad alto potenziale drammaturgico-musicale, che, avviando quella poetica del personaggio “minore” (ma non per questo mosso da passioni di temperatura inferiore al calor bianco!) valorizzato nei suoi moti più umani, condurrà a fine secolo, con le dovute proporzioni, alla Mimì della Bohème.

Ma “popolare” anche per il notevole successo di pubblico di cui queste opere godettero fin dalla loro prima rappresentazione (o quasi: la prima di Traviata fu disastrosa) e godono ancor oggi. Nel caso del Trovatore (Roma, Teatro Apollo, 19 gennaio 1853), è impossibile stancarsi della trama intricata, i cui ingredienti (il classico amore tenore-soprano, il baritono rivale del tenore, agnizioni ad hoc per i momenti cruciali, un'esecuzione, un duello, un avvelenamento, ecc.) concorrono tutti ad una vicenda a tinte fosche, da romanzo gotico, ambientato nella Spagna del XV secolo: e qui bisogna dire grazie ad Antonio García Gutiérrez, drammaturgo spagnolo autore del dramma El trovador (1836), da cui Il trovatore «tragge argomento». La fantasia di Verdi è stimolata a includere in partitura un organo, campane e addirittura due incudini (anticipazione delle diciotto incudini che Wagner chiederà nel suo Rheingold, guarda caso composto proprio a ridosso del Trovatore, nel 1853-54: coincidenze?). Senza dubbio, lo stimolo venne anche da un libretto di qualità come quello di Cammarano, estrema produzione di un poeta che aveva già fornito a Verdi i versi di Alzira, La battaglia di Legnano e Luisa Miller e di svariati lavori di Donizetti, Pacini, Mercadante, ecc: morto improvvisamente nel 1852, non poté soddisfare le ultime modifiche chieste dal compositore, cui provvide Leone Emanuele Bardare e Verdi stesso.

Ma “popolare”, è il caso di dirlo, come la stagione del Regio di Torino. Il nuovo ordinamento, con la sovrintendenza di William Graziosi e la direzione artistica di Alessandro Galoppini, ha praticamente puntato tutto su titoli di indiscussa notorietà, di facile fruibilità e di ascolto più che gradevole: accantonati i titoli di cui si era sentito parlare sul finire della stagione scorsa, Wozzeck di Berg e l'apertura con Siberia di Giordano (esperimenti cui, per quanto riguarda le stagioni scorse, in larga parte contribuiva l'eclettismo un po' visionario di Gianandrea Noseda, ex direttore principale del Teatro), si è tornati nel solco della tradizione, col melodramma “tipico” ottocentesco intervallato qua e là da piccole eccezioni – Agnese di Paër, Pinocchio di Valtinoni, La giara di Casella, Porgy and Bess di Gershwin, oltre alla consueta parentesi dedicata al balletto sotto Natale. Da un estremo all'altro, insomma. Ma è comprensibile, soprattutto alla luce delle funeree novità arrivate fresche fresche a ridosso dell'apertura di stagione. Il comunicato letto a inizio spettacolo, con buona parte dell'orchestra sul palco, ha dell'agghiacciante: più di un milione e mezzo di euro decurtati dai fondi precedentemente stanziati sono, per un teatro, un colpo tal, da disperar… risanamento. E lo sciopero, annunciato ma non messo in atto, può ben dirsi un atto di eroismo per salvare una situazione pesantemente a rischio.

Complessivamente buona la recita di giovedì 18/10/2018. Sotto la bacchetta attenta e vigorosa di Pinchas Steinberg, che aprirà a breve la stagione sinfonica del Regio stesso con un programma tutto brahmsiano, ha preso avvio una performance nel cui cast figurano Rachel Willis-Sørensen (Leonora), Diego Torre (Manrico), Anna Maria Chiuri (Azucena), Massimo Cavalletti (Conte di Luna) e In-Sung Sim (Ferrando).

Rachel Willis-Sørensen, americana a dispetto del cognome, si adopera con perizia nel rendere una Leonora di volta in volta languida e “fidelianamente” eroica, soprattutto nel quarto atto, esordendo in sordina per poi acquistare padronanza del suo strumento vocale. Diego Torre affronta le impervietà della parte di Manrico senza tuttavia avere tutte le qualità per farlo. Il suo timbro manca di squillo, e si trova più a suo agio nel registro grave; a fronte di una buona legatura nei passaggi più cantabili, gli acuti risultano sforzati, non naturali. Un singhiozzo o un ritorno di saliva rovinano il tanto atteso momento della puntatura sovracuta nella cabaletta Di quella pira (sul «teco»): molto meglio la prova di domenica 21, in cui, rinunciando a un ardire che ha compreso non appartenergli, esegue la cabaletta senza puntatura (peraltro, sottolineo, non scritta e quindi non voluta da Verdi) ma in modo corretto, con questo guadagnandosi dei buuu ingiustificati da parte del pubblico. Inappuntabile e affascinante l'Azucena di una bravissima Anna Maria Chiuri, con dei gravi potenti e un'estensione che le consente di innalzarsi verso il registro acuto della sua voce senza problemi; unico appunto, forse imputabile al trasporto dimostrato, una lettura leggermente troppo “verista” del personaggio. Indubbiamente la migliore del cast (e a Verdi forse la cosa non sarebbe dispiaciuta, dato che nella sua concezione di questo lavoro, Azucena avrebbe dovuto conquistarsi il titolo dell'opera: in fondo è grazie a lei che si innesca tutta l'azione drammatica). Piacevole il Conte di Luna di Massimo Cavalletti, che, una volta scaldata la voce, riesce ad essere convincente, particolarmente in Il balen del suo sorriso. Il Ferrando di In-Sung Sim scivola per quasi tutto il Di due figli...abietta zingara su una diacronia che Steinberg fatica a ridurre, non riuscendo a far andare a tempo orchestra e cantante. Inconveniente del tutto risolto nella recita di domenica 21, superiore in tutto alla precedente. Per il resto, la parte è sostenuta con adeguato spirito e voce salda. Completano il cast la Ines di Ashley Milanese, il Ruiz di Patrizio Saudelli (da dimenticare), il Vecchio zingaro di Desaret Lika (che ha colpito positivamente, pur nel suo brevissimo intervento) e il Messo di Luigi Della Monica.

Precisa e coinvolgente la direzione di Steinberg alla testa dell'Orchestra del Teatro Regio, anch'essa in grado di regalare emozioni fatte di scienza esatta e passionalità intrecciate.

Pur non stravolgendo, come talvolta capita, il contesto dell'azione, la regia di Paul Curran fa sorgere alcune perplessità, che sarebbero state evitabili con pochi, semplici accorgimenti. La sua rilettura situa la vicenda dell'opera in epoca contemporanea a quella della sua composizione, con soldati in giubbe rosse, dame in eleganti gonne di raso e un Manrico, che, nonostante il Conte ordini: «Sia tratto al ceppo», viene ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Questo, nelle intenzioni del regista, per attualizzare l'opera. Ci sarebbe da ribattere che c'è ben poco da attualizzare: Il trovatore è una perfetta macchina drammaturgica fatta di coups de théâtre confezionati ad arte, quasi una “favola per adulti” dai toni macabri e dal colore cupo, ben diversa da una storia leggibile in chiave personale o umanizzabile come le vicende di Violetta o Rigoletto. Poco comprensibili altresì alcuni movimenti della massa corale (il Coro del Teatro Regio, diretto da Andrea Secchi, la cui fusione in una sola voce e la cui potenza di emissione restano i suoi cavalli di battaglia), come il sovente sfoderamento e rinfoderamento di spade, spesso senza motivo (e col rischio, come è avvenuto, di rendere imbarazzante il gesto, qualora la spada non si decida a rientrare nel fodero). La scena, di Kevin Knight, è basata su una semplice ma funzionale scalinata divisibile in due blocchi, al centro dei quali compaiono all'occorrenza delle porte. Sullo sfondo, l'immagine della Luna in un chiaro cielo notturno, unico particolare davvero intoccabile di tutta la scenografia.

Christian Speranza

24/10/2018

Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.