Delude Il Trovatore
all'Opera di Roma
Motivo della prolungata assenza del Trovatore verdiano dalle scene romane, dove venne tenuto a battesimo nel 1853, è certo l'impegno impari richiesto ai quattro protagonisti vocali. Un cimento che, occorre dirlo subito, superava ampiamente le capacità dei cantanti ascoltati al Teatro dell'Opera, pur con alcuni doverosi distinguo. La confezione dello spettacolo, coprodotto con Amsterdam e con l'Opéra National di Parigi, appartiene ad Àlex Ollé della Fura dels Baus. Tutto appare ben studiato, dall'uso delle luci ai movimenti dei monoliti che, con il loro salire e scendere, definiscono lo spazio scenico. Un immaginario che in alcuni momenti evoca l'iconografia surrealista di Salvador Dalì, mentre in altri sembra additare moderne acquisizioni architettoniche, come il memoriale dell'Olocausto di Berlino progettato da Peter Eisenman. Eppure l'originalità che agli esordi definiva lo stile del gruppo catalano sembra stemperarsi in una prevedibile routine. Emerge prepotente una sensazione di déjà vu, a cominciare dalla trasposizione temporale, che colloca l'azione nelle atmosfere oscure della Grande Guerra. Una scelta già vista innumerevoli volte, in innumerevoli contesti. Il Trovatore è opera dalla drammaturgia eccentrica, sovente stigmatizzata per i suoi caratteri incongrui. La trama non viene risolta nell'azione, ma svapora nel racconto, nella memoria, nella rievocazione di eventi trascorsi, nel ribollire di ossessioni che letteralmente divorano i personaggi. La creazione di immagini di forte suggestione, i monoliti sospesi in aria a creare vertiginose prospettive, gli uomini rannicchiati nelle loro trincee, le maschere antigas illuminate da una luce verdognola, non risolve la complessità testuale. La messa in scena non aderisce quasi mai al libretto, né tanto meno alla musica. Manca un'idea forte, manca la capacità di porre lo spettatore in quella condizione di “ricettività ingenua”, per usare un'espressione di Fedele D'Amico, della quale Il Trovatore necessita.
La concertazione di Jader Bignamini, alterna nelle scelte agogiche, poco calibrata con il palcoscenico, non aiuta. Il direttore predilige il versante lirico, stemperando troppo le tinte verdiane, sacrificando inevitabilmente le progressioni drammatiche che innervano la partitura. Il meglio viene nel finale, dove riesce a modellare con efficacia le oscillazioni emotive dei protagonisti. Alla compagnia di canto manca dunque una guida. Nel cast la migliore è certo Vittoria Yeo nel ruolo di Leonora. La voce è piccola ma ben governata, capace di toccanti sfumature, a proprio agio nel canto elegiaco, meno nell'espressione di brucianti passioni. Diego Cavazzin (Manrico) ha un discreto vigore nel registro centrale, ma la tecnica latita e i problemi di intonazione abbondano. Apprezzabile il coraggio dimostrato nel ripetere la pira due volte, nell'ottica di una lettura sostanzialmente rispettosa del dettato verdiano. Gli acuti ci sono, ma non appaiono particolarmente belli né squillanti. Difficoltà analoghe incontra Silvia Beltrami, una Azucena grintosa ma afflitta da un timbro arido e non particolarmente accattivante. Anche Rodolfo Giugliani è un Conte di Luna al di sotto delle aspettative, troppo leggero per il ruolo. Opaco infine il Ferrando di Carlo Cigni.
Riccardo Cenci
11/3/2017
La foto del servizio è di Yasuko Kagejama.
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