RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Il Trovatore ritrovato

Al Teatro Sociale di Rovigo, la stagione lirica 2014-2015 si è aperta con la Vedova Allegra ad ottobre, è proseguita a novembre con Il trovatore, continuerà a febbraio con Don Pasquale, per concludersi con La Cenerentola ad aprile: titoli in grado di fare la felicità dell'amante della lirica vecchio stampo, ma anche del neofita che intenda accostarsi a questo mondo con curiosità.

Lo scrivente riferisce della terza ed ultima replica del Trovatore domenica 30 novembre 2014. Regia, cast ed orchestra hanno contribuito a dar vita ad uno spettacolo intenso, riscoprendo il valore della tradizione, di un allestimento cioè che, pur ricorrendo a mezzi scenici contenuti, è riuscito ad emozionare senza discostarsi dalle indicazioni librettistiche (con buona pace di prime scaligere – e non solo – proiettate sempre più verso orizzonti di degradante modernità).

E partiamo proprio dalla regia, con le parole del regista Paolo Panizza, responsabile anche delle scene e delle luci: «Avere fantasia per stravolgere, irridere o scandalizzare trovo che sia la cosa più facile del mondo. […] La difficoltà credo stia invece nel rendere lo spirito degli autori con l'esperienza e l'uso di tutte le tecniche del teatro senza sovrapporsi o sostituirsi ad essi». Un tale laudator temporis acti resterà certamente inviso all'ala registica più avanguardista; ma è da apprezzare per l'uso di soli tre elementi mobili – una torre e due scalinate, decorate a motivi moreschi – che, variamente disposti e combinati con le luci, hanno saputo riprodurre sinteticamente ma in modo efficiente i ben otto luoghi lungo cui si svolge il Trovatore. La chiave era individuare elementi comuni a tutte le scene: una volta individuati, il problema della eterogeneità dei luoghi è stato risolto.

Soprattutto in un teatro come il Sociale di Rovigo (il quale, a onor del vero, può vantare di aver ospitato nel 1819, in occasione della sua apertura, la prima assoluta di Adelaide di Borgogna, opera di Pietro Generali su libretto di Luigi Romanelli scritta apposta per l'occasione, e il debutto teatrale di Beniamino Gigli, nella Gioconda di Ponchielli nel 1914), era d'obbligo scendere a patti con le dimensioni del palcoscenico e del golfo mistico (piatti e grancassa erano ospitati in una barcaccia per mancanza di spazio): plauso perciò a Panizza che ha fatto “ritrovare” il Trovatore in una cornice fedele agli allestimenti dell'epoca verdiana (la diciottesima opera di Verdi, tratta dal dramma di Gutiérrez del 1836, andò in scena per la prima volta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma).

Su Valerio Maggioni, costumista, il giudizio è positivo: i costumi aderiscono bene alla realtà dei personaggi, con un gusto particolare per quelli dei Gitani, per quello verde di Ines e soprattutto per quello di Leonora, vagamente simile all'abito della Mariana di Millais (la cui composizione è precedente di soli due anni al Trovatore): il voluto rifarsi all'Antico, come per i Preraffaelliti, è qui trasposto in costumi calati nell'epoca storica dell'opera, l'inizio del XV secolo, e insieme senza tempo, come sono i capolavori di ogni arte: espressioni della loro epoca, eppure eterni e sempre attuali.

A capo dell'Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, Toufic Maatouk ha saputo valorizzare i cantanti, senza su di loro prevaricare (eccezion fatta durante l'aria di Ferrando al I atto), optando per una direzione discreta, dalle dinamiche eque nei piano come nei forti, sebbene si possa rilevare qualche lieve incrinature nei timbri un po' nasali di clarinetto e fagotto. Probabilmente per irreperibilità dello strumento, si è ricorso, per il rinforzo al grave degli ottoni, alla tuba e non al più filologico cimbasso.

Nulla da eccepire, invece, sulla condotta del Coro Lirico Veneto, diretto da Giorgio Mazzucato, sempre all'altezza del ruolo, sia esso quello degli armigeri capitanati da Ferrando, sia quello dei Gitani.

Deve essere rilevato un particolare importante: la numerosità del coro era commisurata a quella dell'orchestra: entrambe contenute, ripetiamolo, per le dimensioni del teatro, ma in questo modo forse più vicine di quanto non si creda alla realtà storica dell'opera, che non sempre deve essere pensata, come ci hanno abituato i grandi teatri d'Italia e del mondo, a dimensioni colossali di scenografie e al reclutamento di contingenti di artisti e orchestrali: spesso è la realtà dei teatri più modesti a riservare le sorprese più gradite (le perle non crescono forse dentro pochi centimetri di guscio d'ostrica?)

Rapido, il Preludio ci guida scioltamente al Ferrando di Seung Pil Choi, che, nonostante una dizione scandita, viene quasi completamente coperto, come si diceva, durante l'aria Di due figli vivea padre beato; a parte ciò, si disimpegna decorosamente nel ruolo per il resto dell'opera. Rachele Stanisci dà voce ad una Leonora dapprima incerta, ma inizia a sfoderare le sue doti canore nel corso di Tacea la notte placida, migliorando fino a raggiungere il vertice dell'espressività al IV atto in D'amor sull'ali rosee, nel Miserere (emozione pura per l'insieme di solisti, coro e orchestra!), dove spicca per la pulizia del registro contraltile, e nella successiva cabaletta Tu vedrai che amore in terra; i filati sovracuti vengono tenuti ed emessi con squisita perizia ad altezze funamboliche. Il Manrico di Luis Chapa, forse a causa di doti più liriche che drammatiche, non si dimostra sempre all'altezza del ruolo: troppo spesso il volume vocale è insufficiente a sostenere la parte, e, senza soffermarsi sul famoso Di quella pira (con la puntatura ma senza corone), eseguita dignitosamente ma senza enfasi (è pur sempre un figlio che vede quasi morire sua madre sul rogo!), è l'insieme di molti passaggi a deludere, specie dove vengono ricercate dolcezze vocali e filati estranei al personaggio, ricorrendo, se non proprio al falsetto, per lo meno a qualcosa che gli si avvicina molto. Consola pienamente Aris Argiris: il suo Conte di Luna è un cattivo spietato, convincente, capace di seducenti dolcezze nell'aria Il balen del suo sorriso, come di ferocie interpretative (ma non vocali, dove anzi la potenza e il volume sono al servizio del personaggio), soprattutto nel I e nel IV atto. Argiris ed Anna Maria Chiuri, sono indubbiamente le punte di diamante del cast: quest'ultima incarna un'Azucena realistica, per certi versi stregonesca quasi quanto l'altro famoso ruolo verdiano da gitana con voce grave, quello di Ulrica nel Ballo in maschera, merito sicuramente dei costumi e del colpo di luce finale, che ha circondato di un aloe purpureo la sua veste nera e i suoi lunghi capelli d'argento, ma soprattutto di una voce calda, profonda, tornita, capace di mantenersi corposa anche nei non pochi interventi nel registro acuto. Completano infine il cast la Ines di Luciana Pansa, voce che ci auguriamo di ascoltare in futuro in ruoli più estesi, ed il Ruiz di Nicola Pamio.

Al termine della rappresentazione, calorosi applausi hanno accolto sia gli interpreti, sia il gruppo registico.

Christian Speranza

9/12/2014

Le foto del servizio sono di Leonardo Battaglini.