RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il fuoco sotto la cenere

Forse il nome sarà un po' complicato da imparare: Nobuyuki Tsujii, per gli amici Nobu; o, ancor meglio, Tsujii Nobuyuki, in ossequio all'uso nipponico di anteporre il cognome al nome. Sorreggendolo per il braccio, una mano amica lo accompagna al pianoforte, al centro del palcoscenico del Théâtre des Champs-Elysées di Parigi, gremito come merita il debutto parigino dell'astro nascente del pianismo giapponese. Ma non è un voltapagine che lo accompagna: Nobuyuki è infatti cieco dalla nascita, e te ne accorgi appena perché, prima di cominciare, si ferma qualche istante come per prendere le misure della tastiera, per acclimatarsi meglio. Ma è questione, appunto, di un attimo: poi sarà un fiume in piena, inarrestabile – eppur controllatissimo.

Per il suo attesissimo recital parigino sceglie un programma con due parti monografiche, la prima dedicata a due Sonate di Beethoven, l'op. 13, “Patetica”, quindi l'op. 109; e la seconda riservata a Chopin, anche in questo caso con due maestosi pannelli, i Douze Études op. 10 quindi l'Andante spianato et Grande Polonaise brillante, op. 22. È una scelta singolare, per una pianista giovane (è nato nel 1988) e che si presenta in maniera alternativa (ha un sito internet particolarmente buffo, che sembra uscito da un fumetto manga), ma che si giustifica se si pensa ai traguardi già trionfalmente superati: a cominciare dalle competizioni sbaragliate a partire dal 2009, quando vince il concorso Van Cliburn, nell'anno in cui la giuria annovera Menahem Pressler, pianista storico del Beaux Arts Trio; per approdare alle blasonate collaborazioni con Valerij Gergiev o Vladimir Aškenazi, che ne hanno seguito e assecondato i primi passi. Tsujii si misura con i grandi classici della letteratura pianista con disarmante, inarrivabile candore: sembra quasi non venire scalfito dalle categorie estetiche che ormai da secoli pesano su questi capolavori, e per questo s'impone per il nitore di un tocco immacolato, purissimo, per una scioltezza digitale che produce effetti mirabili quando si confronta con i più scoperti passaggi di agilità, sempre risolti nel segno di una cantabilità adamantina – verrebbe da dire di una spontaneità sorgiva, di una schiettezza naturale, immediata, contagiosa.

È il maggior pregio, ma al tempo stesso il limite di un pianismo che inizialmente spiazza, quando si confronta con le ardite architetture beethoveniane, elude scarti dinamici e drammatici, improvvisamente recupera la grazia mozartiana di un innocente badinage per il Rondo che suggella la Sonata in do minore. Ma è anche un approccio profondamente meditato, che presto restituisce consistenza alla terz'ultima Sonata, quando il Prestissimo offusca il luminoso clima apollineo del primo movimento: e poi lascia spazio all'ultimo, Andante molto cantabile ed espressivo, in cui il ciclo di variazioni viene sgranato con apparente, francescana simplicitas, salvo complicarsi progressivamente fino alla polifonia bachiana a quattro voci della IV variazione. Proprio a Bach richiama la quadratura con cui maturano le variazioni, graduale summa di accumulazioni armoniche e tematiche che conducono alla ripresa iniziale del tema, intatto, trasparente eppur sublimato dal gioco di elaborazioni.

Più interessante è il successivo Chopin, a partire dalla decisione di affrontare in blocco l'op. 10 per coglierne meno l'essenza di straordinario strumento didattico, mutuato dalla tradizione di Clementi, Moscheles o Hummel; ma soprattutto la natura di morceau de concert, provvisto di una sua intrinseca, dialettica unità di concezione. La scelta è ancor più sorprendente se – proseguendo nella strada prima intrapresa – si considera la totale assenza di interesse per una nozione, come quella del rubato, fondamentale nella visione romantica di questi brani, che però non diventano mera palestra digitale ma, al contrario, musorgskijana promenade attraverso stati d'animo cangianti, sontuosamente inaugurati dallo Studio in do maggiore, che saldamente poggia sugli accordi della sinistra mentre la destra snocciola arpeggi come se fossero perle scintillanti, inarrestabili. È un virtuosismo trascendentale, che ritorna frequentemente nei numeri pari, il n. 2, il n. 4, contrastatissimo, fino a deflagrare nell'ultimo, in do minore, “Rivoluzionario”, precipitoso e infuocato; ma che si contrappone al clima meditativo dei multipli del n. 3, soprattutto il sesto e il nono, con quello in sol bemolle maggiore a far da meditativo stacco tra le due parti della raccolta. Proprio l'attenzione al basso della mano sinistra conferisce spessore all'Andante spianato, in contrasto con la levigatezza morbida ed elegante dispiegata dal cantabile della destra: che non è solo – o soltanto – belliniano, forte di una dimensione pianistica che è, invece, tutta chopiniana. E poi sarà la Grande Polonaise brillante autentico fuoco d'artificio che particolarmente si giova di un fraseggio scintillante, attentamente scandito, sovranamente equilibrato.

Equamente diviso tra spettatori con gli occhi a mandorla e esperti autoctoni, il pubblico risponde con caloroso, vibrante affetto alle prodezze del pianista: che finalmente decide di dar prova di una molteplicità di interessi resi manifesti dai quattro bis. Per questo comincia con un Debussy (La Fille aux cheveux de lin) ancora immerso in un clima chopiniano, eppur corposo, mai evanescente, ma puntuale, tutto “suonato”, sempre presente; e poi passa al più celebre Liszt (il Terzo Studio in sol diesis minore, S. 140, “La campanella”), in cui si sforza di evitare l'insopportabile meccanismo da irrefrenabile carillon. Forse poteva far a meno di un brano di cui è stato anche compositore, oltre che sensibile interprete, un'Elegia per le vittime dello tsunami dell'11 marzo 2011, una gradevole berceuse di carattere infantile; mentre poi si congeda nel segno di Chopin, con il Notturno in do diesis minore, op. postuma, in cui la sfolgorante bellezza del trillo disegna, tratteggia, increspa una visione di tersa, malinconica, pensosa serenità: quella che riesce a trasmettere al pubblico, e che ci si augura riesca a coltivare nella sua brillante carriera.

Giuseppe Montemagno

25/10/2017