Turandot
alla Scala di Milano
Il teatro alla Scala ha programmato la nuova produzione dell'opera Turandot di Giacomo Puccini esattamente nel giorno in cui è stato inaugurato l'Expo 2015 di Milano, il quale è un evento unico e straordinario per l'Italia e soprattutto per Milano, città che lo ospita. Pertanto, era doveroso che la più importante istituzione musicale nazionale, il Teatro alla Scala, partecipasse in prima fila all'evento dimostrando un'indispensabile sinergia con la città e innalzando il nostro orgoglio nazionale. La produzione di Turandot è caratterizzata da due aspetti rilevanti. In primis segna l'inizio del mandato quale direttore principale del Teatro del M.o Riccardo Chailly, in secondo luogo per la prima volta nella sala del Piermarini è stata eseguita l'opera incompiuta di Puccini con il completamento del III atto di Luciano Berio.
Sarebbe troppo ampio in questa sede ripercorrere la genesi dell'opera, ma sintetizziamo brevemente i fatti. Puccini aveva portato a termine l'orchestrazione del suo nuovo lavoro fino alla morte di Liù nel terzo atto. Dovette partire subito dopo per Bruxelles ove fu sottoposto a delle cure di radioterapia, le quali come sappiamo furono inefficaci, il maestro spirò il 29 novembre 1924. Per volere del Teatro alla Scala e del suo direttore principale del tempo, Arturo Toscanini, si affidò incarico al compositore Franco Alfano di ultimare l'ultimo quadro dell'opera per poi poterla eseguire. Tale commissione avvenne in virtù delle eccelse qualità di orchestratore che Alfano si era procurato nel corso della sua carriera. Egli basandosi su appunti e idee frammentarie lasciate da Puccini compose una prima versione del finale, che fu bocciato da Toscanini perché troppo estraneo allo stile di Puccini, il quale si sapeva, voleva conclusa la fiaba, ma l'intervento postumo e di altra mano doveva essere il meno incisivo possibile. Fu così che Alfano compose un secondo finale molto più stringato e con uno sviluppo a lieto fine maestoso e trionfale. Questo secondo finale è sempre stato utilizzato in tutte le rappresentazioni teatrali ed incisioni discografiche. È un finale che possiamo definire “arrangiato” per terminare una vicenda restata sospesa. È assurdo che talvolta per egocentricità di direttori o registi l'opera si interrompa con la morte di Liù, con la sola musica composta da Puccini; lo fece, in effetti, Toscanini la sera della prima assoluta il 25 aprile 1926, ma era altra cosa, sommo omaggio al compositore, nelle recite successive diresse il secondo finale Alfano. Nel 2001, su commissione del Teatro di Las Palmas, Luciano Berio propone un suo completamento di Turandot basato su criteri del tutto differenti. Egli elimina tutte le parti ridondanti del finale, in particolare “l'inno” di lode alla Principessa, realizzando un finale aperto: la vicenda amorosa di Turandot e Calaf continua lasciando sul palco il cadavere dell'infelice Liù, sacrificatasi per amore. Non è da sottovalutare che Berio utilizzi tutti gli schizzi dai quali è possibile intuire le intenzioni di Puccini, Alfano ne utilizzò solo cinque su trenta, soprattutto ha voluto finire l'opera in maniera “wagneriana” rifacendosi al finale di Tristan und Isolde, il quale indicava che Puccini voleva terminare l'opera in pianissimo, come testimoniato dal musicista Salvatore Orlando al quale il compositore espresse tale convinzione, e il musicista lo confidò in un carteggio con Leonardo Pinzauti.
In questa veste l'opera prende tutt'altro spessore da come siamo abituati ad ascoltarla. L'aria e il suicidio di Liù acquisiscono un'importanza più drammatica, scuotendo le coscienze dei due protagonisti, dei quali è la principessa ad ottenere un ruolo ora di donna e non più gelida principessa, e il cammino sulle parole finali “È amore” terminano una fiaba con una forte impronta umana e meno ridondante. Esprimere ora un giudizio sui tre finali non è molto corretto, non piace a chi scrive stilare classifiche. Ognuno ha una sua importanza anche in virtù del momento in cui è stato composto. Sicuramente la versione Berio è più rispettosa non solo dell'autore ma anche della drammaturgia dei personaggi, basti pensare che la Principessa “cede” a Calaf con il contatto fisico. Quello ascoltato alla Scala è stato un finale struggente e pieno di umanità e anche parliamo di fiaba, ci ha emozionato come raramente capita. Vorrei aggiungere che per stessa ammissione di Berio, egli non ha voluto sostituirsi a Puccini, ma ha cercato a modo suo di interagire con la musica del compositore che ricordiamolo, al tempo, era il più illustre e futurista dei musicisti italiani pur rispettando il senso melodico del canto.
Lo spettacolo proposto era un allestimento della Nederlandse Opera di Amsterdam (2002) curata dal regista Nikolaus Lehnhoff. Spettacolo che si sviluppa principalmente nel nuovo finale, trovando pochi spunti per cineserie e tableaux folkloristici, ma immergendoci in una fiaba per molti aspetti cruda e disumana. La scena fissa, di Raimund Bauer, rappresentava un castello imponente e spettrale tutto rosso, luogo ove la perfida protagonista enuncia i suoi indovinelli e manda a morte gli sfortunati principi. A fianco del rituale fiabesco troviamo riferimenti cinematografici contemporanei della partitura, in particolare Fritz Lang (M il Mostro di Düsseldorf), con il coro disposto su di una balaustra e le guardie con le torce al posto delle mani. Perfettamente impregnante negli aspetti drammatici, con il mirabile costume nero di Turandot, di Andrea Schmidt-Futterer, che rende ieratica la gelida principessa. Nulla è lasciato al caso, dall'ottima recitazione, alla frizzante macchietta delle tre maschere che s'ispirano alla commedia dell'arte, allo struggente finale quando tutte le porte del palazzo si aprono emanando luce e i due protagonisti s'incamminano, non senza un barlume di rimorso per Liù, verso una nuova vita.
Artefice principale dell'operazione musicale è Riccardo Chailly, perfetto cesellatore di sonorità del ‘900, sia quelle pucciniane, bastano gli stacchi timbrici degli archi e delle percussioni, e la poetica armonia nei momenti cantati da Liù, sia in quelle di Berio ove la fluttuante orchestra regala squarci di estetica musicale di prim'ordine. Complici molto convinti sono un'orchestra allo zenit e la magnifica prova del Coro diretto da Bruno Casoni.
Il cast era ragguardevole, e per i tempi che corrono non è poco, senza andare a rispolverare miti, apprezzati, del passato. Nina Stemme è una glaciale principessa, ben inserita nel ruolo e dal buon fraseggio, certo che lo spessore vocale di un tempo è notevolmente ridimensionato e nel settore acuto ha dovuto barattare in molte occasioni. Stefano La Colla, che sostituiva in alcune recite l'indisposto titolare, ha fatto un debutto scaligero rilevante dimostrandosi tenore di solida tenuta con accenti apprezzabili. Maria Agresta quando interpreta personaggi tipicamente lirici si trova a perfetto agio e regala emozioni in sfumature, pianissimi e dolcezza che sempre vorremmo ascoltare. Molto efficaci le tre maschere, brillanti e superbamente recitate: Angelo Veccia, Roberto Covatta, Blagoj Nacoski. Preciso il Timur di Alexander Tsymbalyuk dotato di voce molto penetrante, sfavillante Carlo Bosi nel ruolo di Altoum e corretto il Mandarino di Ernesto Pannariello.
Successo trionfale alla quinta recita cui abbiamo assistito con numerosissime chiamate al termine.
Lukas Franceschini
19/5/2015
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano - Teatro alla Scala.
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