RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Il testamento di Puccini

Secondo appuntamento dell'anno con la musica di Puccini al Teatro Regio di Torino; dopo Madama Butterfly, la suggestione orientale prosegue con Turandot (in sostituzione della prevista Francesca da Rimini di Zandonai di cui il Regio ospitò la première il 19 febbraio 1914), in scena dal 12 al 27 febbraio con prova generale il 9, di cui riferiamo. La produzione si avvale di una scenografia imponente, di una regia attenta e soprattutto di un cast di notevole livello, a cominciare da Carmen Giannattasio, soprano dal repertorio belcantistico, ma che dà vita ad una Liù dalla voce corposa, calda, ma capace di notevoli filati, grazie ad un fermo controllo dell'emissione, e a suo agio anche (e soprattutto) nel registro grave. Ben riuscita la prova di recitazione al III atto (Tu che di gel sei cinta), che fa rimanere col fiato sospeso. Timur, cui dà volto, voce e movenze Giacomo Prestia, è un basso grave e profondo fin dalle prime battute, non del tutto credibile nei panni del «vecchio re senza regno e fuggente», ma di sicuro effetto al momento di Liù bontà… Liù dolcezza.

Roberto Aronica, già allievo di Carlo Bergonzi, è tenore drammatico nell'anima (esordì come Duca di Mantova in Rigoletto e ha in repertorio principalmente ruoli verdiani), e tratteggia un Calaf fiero, risoluto, con uno squillo di voce che non sconfina mai quasi nello sforzato, nonostante l'impostazione della voce di gola non riesca a fargli scurire il timbro oltre un certo limite, e i numerosi passaggi in cui la domanda vocale è ardita: lo stesso Puccini, riferendosi ai ruoli sia di Calaf, sia di Turandot, si chiese preoccupato: «Ma chi canterà quest'opera? Occorre una donna eccezionale e un tenore che non scherzi» (lettera a Carlo Clausetti del 14 febbraio 1924, nell'articolo di Enzo Restagno che troviamo nel volume monografico acquistabile presso il Teatro). E Aronica non scherza affatto: si presenta in scena a voce calda, prestante fin dall'inizio, e migliora proseguendo; gli attacchi sono sempre netti, precisi, anche quando, al II atto, non vi sono accompagnamenti orchestrali a sostenerlo. Pur cantando le tre invocazioni: «Figlio del Cielo! Io chiedo/d'affrontar la prova!» di schiena rispetto alla sala, il timbro rimane squillante e sostenuto. Il suo Nessun dorma suscita un'ovazione nel pubblico che dura alcuni minuti; l'esecuzione è buona, ma, nonostante questo sia uno dei casi in cui l'elogio è più che meritato, a dispetto di tante volte in cui l'applauso è diretto più al brano che all'esecuzione (e, in brani così trascinanti, è facile lasciarsi trasportare dalla bellezza della musica, trascurando l'interprete), l'interruzione che Pinchas Steinberg è costretto a fare onestamente spiace allo scrivente, non perché non si debba tributare al cantante l'encomio che merita, ma perché spezza il continuum drammatico, dato che in partitura non vi è alcun segno di pausa o di stacco, quindi nessuna intenzione, nella volontà di Puccini, di interrompere l'azione scenica (anzi, crediamo fermamente che Puccini volesse imprimere all'esaltazione procurata nello spettatore una svolta improvvisa ed amara, contrapponendo immediatamente dopo la battuta ironica di Ping: «Tu che guardi /le stelle, abbassa gli occhi…»); ma, alla richiesta di bis, Steinberg si volta verso il pubblico e dice in italiano: «Per il bis si paga il biglietto»: risposta poco garbata ma comprensibile – siamo alla generale: conviene conservare la voce per le recite.

La «principessa di gelo» è il soprano finlandese Johanna Rusanen, che debutta in Italia come cantante d'opera. A suo agio negli impegnativi ruoli di Wagner e di Richard Strauss, complice anche l'alta tessitura di Turandot, la sua voce si mostra limpida, vibrante, più fredda rispetto a quella della Giannattasio, più cristallina, e si disimpegna bene in tutti i registri, particolarmente in quello medio, dove l'emissione è piena e il controllo totale, mentre in quello acuto e sovracuto tende, anche se raramente, al grido. Tutto il ruolo è condotto con grande padronanza, e nei concertati riesce ad imporsi al di sopra del coro e dell'orchestra (alle parole: «tremante, fremente» è ancora perfettamente distinguibile). Dispiace constatare d'altra parte, la dizione poco distinguibile e la mancanza di sfumature di colori, cosa che fanno della Rusanen un'interprete a tratti artificiosa e innaturale.

Completano il cast Ryan Milstead, un Mandarino che non convince troppo, Antonello Ceron, l'imperatore Altoum, e Donato Di Gioia, Luca Casalin e Saverio Fiore nei ruoli rispettivamente di Ping, Pang e Pong, terzetto molto ben coordinato e compatto.

Steinberg adotta una direzione asciutta, a tratti scabra rispecchiando il carattere di Puccini, reso più duro negli ultimi anni. I tempi sono quelli ormai consolidati dalla tradizione, anche se si sarebbe voluta un po' più di grandiosità nel primo dei tre finali. Durante l'atto I viene dato molto rilievo, forse troppo, alle percussioni, grancassa e xilofono in primis, che sono andate molto spesso a coprire la fine orchestrazione pucciniana (che proprio nell'atto I raggiunge l'apice della complessità e della raffinatezza: tormentato dal dubbio del capovolgimento improvviso di Turandot all'atto III, Puccini continuò a rivedere l'orchestrazione di ciò che aveva già scritto: i primi due atti sono così il risultato di quasi quattro anni di aggiunte e modifiche, un intreccio complessissimo di strumentazione e richiami melodici, vera e propria scrittura sinfonica). Sul palcoscenico, al momento della chiamata di Turandot, Calaf percuote non un gong ma un tam-tam, accorgimento non sempre adottato (d'altro canto Puccini non è così rigido nell'indicazione dello strumento), ma a nostro giudizio di miglior effetto scenico. La direzione migliora al II atto; gli ottoni nudi, a risposta degli interventi dell'imperatore Altoum, piombano sul pubblico secchi e netti, con rara potenza drammatica. La concitazione della direzione porta talvolta ad un esito confusionario, come nella scena che segue il Nessun dorma, dove le voci vengono coperte dall'orchestra, ingenerando un senso di disorganizzazione. Una annotazione: tre trombe e tre tromboni vengono fatti suonare da due palchi laterali, quando, al III atto, Turandot apprende il nome del principe ignoto dalle labbra di Calaf stesso. In partitura è segnato: “ottoni interni”: il fatto che vengano posti nei palchi laterali perplime. Che cosa significa “interni” per Steinberg?

La regia è quella ormai classica di Giuliano Montaldo, presentata nel 1993 e con la quale, nel 2003, andò in scena la première italiana della Turandot con il finale di Luciano Berio (ripresa nel 2012 dal teatro Carlo Felice di Genova). La scena è dominata da una grande scalinata sulla quale salgono e scendono Turandot e Calaf durante la scena degli enigmi, ed è sovrastata da un alto colonnato che fa da cornice, ma manca la struttura girevole presentata a Genova, probabilmente per ragioni di spazio (la scelta di far entrare il «popolo di Pechino» all'inizio del I atto e Ping all'inizio del II dai praticabili ai lati del palcoscenico, in questo richiamando lo Zauberflöte di recente messinscena qui al Regio, è dovuta forse allo stesso motivo, perché nell'allestimento di Genova questo particolare mancava). Strettamente parlando, di cinese non v'è molto, anzi in qualche dettaglio ricorda semmai la porta di Ishtar, ma si tratta di una scenografia di forte impatto visivo (Montaldo è d'altro canto regista di stampo cinematografico), la cui profondità fa collocare l'imperatore Altoum ad una distanza, dalla quale davvero la voce sembra provenire dall'oltretomba, effetto fiabesco di un imperatore senza tempo. Accorgimento registico che cerca di risolvere quel che drammaturgicamente resta irrisolto, Turandot si copre il viso col mantello nel momento in cui Timur canta la sua romanza a Liù morta, cercando di non vedere ciò che non riesce a capire: il sacrificio per amore, lo stesso amore per cui Liù si suicida e per cui Calaf mette a repentaglio la sua vita quando propone di scoprire il nome. Non è chiaro però il motivo per il quale, con tutto il palcoscenico libero, il duetto finale tra Calaf e Turandot venga fatto recitare a lato palco, e non in centro, rendendo così la visuale monca a quella parte di pubblico situata nei posti meno centrali.

I costumi, a firma di Elisabetta Montaldo, si conformano ad una visione tradizionale della Cina e della fiaba, ad eccezione di quelli di Ping, Pong e Pang, i quali, con le loro coloratissime mise, simboleggiano il lato comico e surreale dell'opera, e pertanto possono permettersi la libertà di essere meno credibili.

Nel complesso, si ha di che essere soddisfatti per un'esecuzione curata e in grado di regalare emozioni sicure. Il testamento di Puccini è in buone mani.

Christian Speranza

3/3/2014

Le foto del servizio sono di Ramella&Giannese©Teatro Regio Torino.