RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Sull'attenti per Zoraida

Il progetto Donizetti 200 nasce col proposito di (ri)mettere in scena opere donizettiane al volgere del loro bicentenario: una lodevole iniziativa che nelle ultime edizioni del Donizetti Opera Festival ha disseppellito un tesoro dietro l'altro. Il progetto ha potuto seguire però l'ordine cronologico fintantoché il buon Gaetano andò avanti a comporre un'opera all'anno o quasi. Nel 1818 scrisse Enrico di Borgogna, e nel 2018 venne messa in scena; un mese dopo la farsa Una follia, al momento perduta. Nel 1819 vennero Il falegname di Livonia, eseguita nel 2019, e Le nozze in villa, rappresentata a porte chiuse al Teatro Donizetti nel 2020, in pieno Covid; e dato che nel 1820-21 Donizetti non scrisse opere, nel 2021 si ricorse alla Medea in Corinto di Mayr, il suo maestro. Negli anni successivi, però, quando la produzione del Bergamasco iniziò a infoltirsi, è stato giocoforza scegliere fra tre o quattro opere alla volta. Nel 2022 si optò per Chiara e Serafina, cronologicamente l'ultima del 1822 (Milano, 26 ottobre), mentre nel 2023 fu la volta di Alfredo il grande.

Tornando al 1822 e risalendolo dalla Chiara e Serafina all'indietro, troviamo La lettera anonima (Napoli, 29/06), La zingara (Napoli, 12/05) e Zoraida di Granata (Roma, 28/01). E proprio la Zoraida è stata fatta oggetto del Donizetti 200 nella presente edizione del 2024. Oltre alla prima versione del 1822, infatti, ne esiste un'altra che vide la luce al Teatro Argentina di Roma, come la prima, il 7 gennaio 1824.

L'originale prevedeva due tenori per i ruoli del protagonista e dell'antagonista. Senonché Amerigo Sbigoli, il designato Abenamet, morì poco prima del debutto cantando il Cesare in Egitto di Pacini. La prima fu posticipata di una settimana o due, e Donizetti accomodò la parte di Abenamet per contralto, ricorrendo così all'artifizio arcaico, da opera seria metastasiana, del ruolo maschile en travesti, come il Tancredi rossiniano e molte altre. Per ascoltare la ur-Zoraida coi due tenori si sarebbe dovuta attendere l'Academy of Saint Martin in the Fields e la world première del 1999, diretta da David Parry e incisa da Opera Rara . Col senno di poi, contando che quelle di questi anni sono opere dove il manierismo rossiniano sta lentamente cedendo il passo a uno stile più personale ma di fatto è ancora presente, si può dire che la scelta del “musico”, come si diceva all'epoca, non stona. E nel 1824, quando Donizetti rimise mano alla partitura, aggiustò sì diversi passaggi ritenuti di minor presa, ma lasciò Abenamet contralto. Anzi, la versione del 1824 strizza ancor più l'occhio a Rossini, più di quanto non facesse quella del 1822, maggiormente vicina a Mayr.

Da questi aggiustamenti venne fuori una vera e propria terza versione, o seconda, se non consideriamo la prima per due tenori, piuttosto diversa da quella del 1822, di cui Edoardo Cavalli nella monografia descrive dettagliatamente il lavoro di ricostruzione sulle fonti e la messa a punto di due diverse edizioni critiche: una per la versione 1822 e una per la versione 1824.

Seconda o terza che sia, la Zoraida del 1824 viene data al Teatro Sociale di Bergamo nella regia di Bruno Ravella e coprodotta con il Wexford Festival Opera, dove lo stesso allestimento, mutatis mutandis, è servito per mettere in scena, nel 2023, la versione 1822. Allestimento moderno, sia detto subito, che al netto di tutti gli snudar di brandi e gli incrociar di ferri sostituisce le pistole, a partire da quella che nella mano di Almuzir fredda due vittime inginocchiate e incappucciate durante la Sinfonia d'apertura: vere e proprie esecuzioni, un po' fini a se stesse ma utili a tratteggiare la spietatezza del villain. Nella sua attualizzazione, Ravella, con l'assistenza di Filippo Rotondo, avvicina la Granada del 1480 a scenari di guerra a noi più familiari, per fortuna solo attraverso i telegiornali. Come afferma egli stesso nell'intervista: «Ho evitato la trappola di orientalizzare la storia […]. Ma questo non significa che il mio allestimento vada contro il testo o la musica». Le scene, di Gary McCann, assistito da Gloria Bolchini, si basano su uno scenario fisso, che riproduce, per ammissione dello stesso Ravella, la Biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia-Erzegovina di Sarajevo, distrutta il 25/08/1992. Lo stile neomoresco è presente nel doppio ordine di archi e colonne sullo sfondo, che permane per tutta l'opera; si aggiunge poi una colonnina calata dall'alto, alla quale viene fissata Zoraida con del filo spinato, pronta ad essere arsa viva poco prima dell'arrivo di Abenamet. Ma quelle che si vedono sono rovine, macerie, i resti diruti di un palazzo di cui forse si salvano poche stanze, elette a quartier generale da Almuzir: a riprova, ecco il tavolo attorno a cui avvengono i negoziati fra quest'ultimo e Abenamet. Un tavolo, qualche sedia e null'altro, a sottolineare la precarietà della situazione. L'insieme, reso cupo e claustrofobico dalle luci di Daniele Naldi, assistito da Paolo Bonapace, trasmette realmente l'idea di qualcosa di instabile, di angoscioso, di un equilibrio che potrebbe crollare da un momento all'altro. Degli interni si salva un bruno pannello ligneo traforato a disegno mudejar, con funzione di tramezzo, mentre della vetrata sul soffitto rimane soltanto l'intelaiatura in metallo, che cala come una gabbia su Abenamet, quando viene imprigionato, ma che torna integra, mosaicata e coloratissima, come il pavimento, nel rondò finale di quest'ultimo, simbolo di rinascita e speranza sulla scorta dell'happy ending amoroso. Significativo anche che Zoraida sia accompagnata nelle sue entrate da libri e fogli svolazzanti, quasi che fosse la portatrice della cultura così barbaramente uccisa. Ricorda un po' l'analogo piover di fogli dell' Ange de Nisida nel 2019, in un Teatro Donizetti ancora in fase di cantiere.

Più difficile è spiegare la figura femminile che si aggira ogni tanto per la scena, vestita di blu come Zoraida, forse un suo doppio (ma perché?). Zoraida in blu, e la sua fida amica Ines, in dimessa casacca verde con golfino marrone chiaro, contrastano con due altri ordini di costumi: il doppiopetto e il completo di Almuzir e del suo confidente Alì, entrambi emblema di una diplomazia fredda e crudele, e le mimetiche di Abenamet, dei suoi soldati e di quelli di Almuzir, con tutto l'insieme di dettagli, anche realistici, di armi, gradi, mostrine, ginocchiere, gomitiere, scaldacollo e berretti baschi. Merito anche in questo caso di Gary McCann con la collaborazione di Gabriella Ingram.

I solisti da parte loro contribuiscono grandemente alla riuscita dello spettacolo con movimenti scenici un po' stereotipati ma efficaci. Nel loro insieme appaiono i meglio assortiti del festival, attestandosi tutti, nessuno escluso, su un alto grado di qualità vocale e attoriale, perlomeno stando alla recita di domenica 1 dicembre 2024, terza e ultima, escludendo l'anteprima giovani. Il rôle-titre è sostenuto da Zuzana Marková, maliosa e duttile voce sopranile che trova nella morbidezza e nel canto sfumato le sue qualità migliori, sfruttate anche in passaggi di perigliosa arditezza come la cavatina Ah! di speme un raggio amico. Ne esce una Zoraida dai sentori languidi pur calati nella drammaticità della storia. Morbidezza di fraseggio e velluto vocale caldo contraddistinguono anche lo strumento di Cecilia Molinari, l'Abenamet di questa produzione, la cui solida tecnica le permette di trattare il canto di coloratura con l'adeguata espressione e di sfoggiare un canto uniforme, ben appoggiato sul fiato e dai centri corposi ma non pesanti. Da evidenziare anche l'ottima e credibile prestazione sul palcoscenico e la gestualità naturale. Torna a far sognare poi, lo squillante Konu Kim, tenore di pasta rossiniana che qui affronta un ruolo per la verità concepito come baritenorile, ma che risolve brillantemente grazie a una fibra vocale di bel metallo lucido, con una impressionante facilità negli acuti, dove anche sulle vette del suo pentagramma non perde di spessore. E dico “torna” non solo perché è già stato l'Almuzir della Zoraida di Wexford, ma anche perché fu il Leone dell'Ange sopra citata: un donizettiano di vaglia, insomma, che, a fronte forse di una tavolozza di colori talvolta poco variegata, dispone di mezze voci e delicatezze degno contraltare delle esibizioni di forza del canto spiegato. Una mimica efficacissima, a volte un filo troppo carica e ripetitiva, fatta di manrovesci trattenuti e smorfie di autentica ira, contribuisce a tratteggiare vieppiù il personaggio negativo; quanto a negatività se la gioca con l'Alì di Valerio Morelli, dotato di strumento brunito, solidissimo e timbrato, che specialmente nel secondo atto, a partire da Furia mia, che nel petto profondo, ha modo di distinguersi in una serie di interventi precisi e puliti, in cui lo scavo nel testo e la resa della parola riescono eccellenti: in una parola, la scoperta del cast. Come Morelli, allievi della Bottega Donizetti sono la Ines di Lilla Takács, cui è riservata Del destin la tirannia, risolta con amabile souplesse, e l'Almanzor di Tuty Hernàndez.

Su tutti, anche sul Coro dell'Accademia Teatro alla Scala istruito da Salvo Sgrò, che agli applausi finali saluta i suoi coristi col saluto militare, regna sovrana la bacchetta di Alberto Zanardi, alla testa dell'Orchestra Gli Originali, la quale, come nelle edizioni scorse, accompagna le opere del progetto Donizetti 200 con strumenti d'epoca. Dalla loro intesa scaturisce un suono compatto, di buon volume, in continuo dialogo col palcoscenico, del quale rispetta la supremazia e al quale si assoggetta, non prevaricando mai sulle voci, e che non conosce cali di smalto o di tensione nelle oltre tre ore di musica. A contribuire all'aspetto arcaizzante cui si accennava sopra è l'impiego del fortepiano solo (suonato dal commendevole Ugo Mahieux) nei recitativi secchi, senza l'arco grave di rinforzo, anche se solo per motivi logistici; come dichiara lo stesso Zanardi: «la buca del Sociale è piccola, il fortepiano suona in barcaccia e lì il violoncello proprio non ci sta».

Con gli applausi festosi di questa recita si conclude il Donizetti Opera Festival 2024. Al volgere della decima edizione, il suo direttore artistico, Francesco Micheli, consegna le armi e le passa al suo successore, Riccardo Frizza, al quale auguriamo fruttuosi anni di proficuo lavoro. Per il 2025 si annunciano la Caterina Cornaro e Il furioso all'isola di San Domingo.

Christian Speranza

9/12/2024

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.