RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Ratto rapisce a Torino

È un Medio Oriente immaginifico, oleografico e un po' naïf, quello presentato al Regio di Torino per Il ratto dal serraglio di Mozart, secondo titolo in cartellone della stagione 2025/2026 dopo la Francesca da Rimini inaugurale (quella di Zandonai: meglio specificare). L'Oriente dei racconti, delle fiabe, da cartolina o da Mille e una notte, eppure tanto consolatorio a fronte di riletture ipermoderne, autoreferenziali e sovente insulse da parte di registi a loro volta autoreferenziali. Qui no. Michel Fau concepisce la sua regia nel 2024 per l'Opéra Royal (Château de Versailles Spectacles); viene qui ripresa da Tristan Gouaillier e si avvale delle belle scene dipinte di Antoine Fontaine, con palme e minareti per gli esterni, che si scorgono oltre gli spalti della reggia di Selim, e con la veduta del porto per gli interni, dalle cui finestre occhieggia persino un vascello. Mentre per gli esterni due elementi mobili, che si congiungono al centro, formano l'entrata del palazzo, con quattro entrate ad arco, bombate all'orientale, un sontuoso apparato di fughe prospettiche ci introduce nell'elaborato corridoio centrale per gli interni, con imponenti lucerne al soffitto; soffitto che può abbassarsi, come possono avvicinarsi le pareti. Il tutto in un profluvio di tappeti e ornamenti, cromaticamente ricchi, vari e giustapposti, che seducono l'occhio e mai scadono né nel kitsch, né nell'eccessivo.

Si prenda per esempio l'armonizzazione cromatica fra il costume di Blondine, sui toni del verde, bianco e salmone, qui ricondotta a cameriera in crinolina e carrello del tè, e le porte del palazzo, che si corrispondono, tinte pastello ton sur ton. Tutti i costumi, a firma di David Belugou, rispecchiano fedelmente in analogia con le scene, le prescrizioni librettistiche (si confrontino i bozzetti riportati nel curato programma di sala per una ripresa del 1829): turchi vestiti da turchi, europei da europei, secondo la moda dell'epoca mozartiana, con le debite eccezioni di un Selim in elegante giacca da camera nei toni di un bel blu nobiliare e Konstanze, al cui abito nero e pesca mancano soltanto i veli per adeguarsi alle mode della preferita del pascià, che sposa la moda orientale in ossequio ai doni e alla condiscendenza di Selim. Azzimato e imparruccato di bianco, con l'abito di gala rosso che ricorda forse volontariamente quello del ritratto di Mozart di Barbara Krafft, Belmonte contrasta con Pedrillo, che sei adegua ai calzoni arabeggianti e all'ampia camicia bianca. Più caricaturale Osmin, dall'inseparabile sciabolona e dal turbante piumato; e così via.

Una fedeltà e uno sfolgorio di colori che, diciamolo, delizia gli occhi. Michel Fau, assistito da Hadrien Delanis, fa ciò che dovrebbe sempre fare un regista: rende visibile il libretto, donando con arguzia, attraverso movimenti scenici azzeccati e calibrati, una personalità identitaria ai vari personaggi. Non manca poi di strizzare l'occhio anche a un certo tipo di comicità “viennese” che estrapola dall'opera – spassoso ad esempio il siparietto tra Belmonte e il direttore, incitato ad accelerare i tempi durante la “romanza del mandolino” di Pedrillo – un mandolino-prosciutto, in realtà – («Su, maestro, un po' di velocità», detto in italiano verso la buca: e per un momento la quarta parete non c'è più). Fau gioca anche con stratagemmi più fini: i monologhi di Belmonte sono isolati al di qua di un sipario dipinto in forma di ampi panneggi damascati rossi con ricami dorati, come a proteggere i suoi a parte; al soffitto è dato abbassarsi, si diceva, e al corridoio restringersi, e ciò avviene quando Konstanze lamenta la sua prigionia, il suo forzato soggiorno vissuto come in una cella dorata che, in quanto cella, si fa soffocante.

Un senso di aerea leggerezza viene invece dall'ultima scena, in cui, sul tripudiante coro finale, Selim si libra sopra gli altri personaggi in piedi su un tappeto volante, che ondeggia sopra le teste di coristi e solisti: apoteosi del sovrano illuminato – ravvisabile forse in Giuseppe II, l'imperatore che commissionò il Singspiel a Mozart, reso ancor più meritevole di benevolenza nella versione operistica di Johann Gottlieb Stephanie il giovane, che firma il libretto, rispetto all'originale di Christoph Friedrich Bretzner (che non ne gradì la messa in musica: «Un tale di nome Mozart a Vienna ha avuto l'ardire di svilire il mio dramma Belmonte und Constanze trasformandolo in un libretto d'opera. Avanzo qui le più solenni proteste per questa violazione dei miei diritti e mi riservo ulteriori passi»), in cui Selim perdona Belmonte dopo aver ravvisato in lui il figlio perduto – e insieme tocco di magia che in una pièce a lieto fine come questa non sembra stonare.

Merito a parte le luci di Joël Fabing, che screziano molti quadri con raffinatezza; il gioco d'ombre e le silhouette dei quattro protagonisti alle loro spalle, nel quartetto che chiude il II atto, è una delizia estetica, e sembra quasi richiamare un certo gusto strehleriano che fa capo al più famoso allestimento di questo titolo.

Si pone invece sul piano di una buona routine l'aspetto musicale, con alti e bassi in orchestra e sul palcoscenico. La direzione è affidata a Gianluca Capuano, al doppio debutto sia alle prese con questo titolo, sia sul podio del Regio, di cui guida l'Orchestra stabile, snellita rispetto al solito ma forte sempre di validi elementi – qui posti in maggior risalto da una buca meno profonda del consueto, come di prassi in questo repertorio – e il Coro, certezza inossidabile del Teatro e, nelle mani di Ulisse Trabacchin, plastico tassello di spicco della produzione. Il suono dei passaggi turcheschi è reso cruscante grazie all'adozione, a rinforzo del classico trio associato alle bande giannizzere (piatti, triangolo, grancassa), del chapeau chinois, o mezzaluna turca, bastone adorno di campanelli che, scosso, produce un tintinnio caratteristico – strumento non in dotazione al Teatro e fatto arrivare apposta. L'enfasi posta sul lato percussivo della partitura, però, mossa, si intuisce, da buone intenzioni, per restituire una baldanza in fondo condivisibile per questo lavoro, copre in alcuni casi le voci; né altre volte, percussioni a parte, la concertazione è ottimale, con lo svantaggio, non persistente ma affiorante qua e là, di voci in gara col volume orchestrale, voci che, si dirà a breve, non sempre sono all'altezza delle esigenti richieste mozartiane. Meglio configurato il profilo strumentale, con sezioni tratto a tratto coese o trasparenti secondo necessità. Bene infine per l'adozione di agogiche e dinamiche in linea col dettato scenico e musicale.

Il cast si presenta differenziato, principalmente con la coppia dei servitori meglio performante rispetto a quella nobiliare (una cosa che, sul piano etico delle future Nozze, a Mozart forse non sarebbe dispiaciuta!). Alasdair Kent, per l'appunto, non canta male, e nel suo timbro chiaro di aggraziato tenore leggero, “rossiniano”, per così dire, belcantista, il personaggio di Belmonte può anche trovare una sua incarnazione, quella più apollinea e incantata; ma a fronte di una riconoscibile eleganza di canto, il volume è spesso carente, e la voce perde di mordente in acuto, dove incontra qualche asprezza; ciò si rileva già nella sua aria di sortita, Hier soll ich dich denn sehen, e si riconferma più avanti, in Ich baue ganze auf deine Stärke, dove l'affettuosità del brano gli dà modo di giocare la carta del lirismo, che gli riesce bene. Peccato per lo squillo, presente in teoria ma sacrificato da un'emissione di gola che non permette alla voce di arrotondarsi. Notevoli però i filati, tenuti su fiati lunghi e sicuri, con dei pianissimi ulteriormente smorzati e tesi al limite, vero cavallo di battaglia del suo spettro fonico. Bene anche per l'aspetto attoriale, che trasmette la voglia di salvare l'amata ma senza “sporcarsi le mani”, e col trasporto sempre molto misurato del portamento nobiliare che lo contraddistingue. Di altra natura pregi e difetti di Olga Pudova, impegnata nell'arduo ruolo di Konstanze, concepito da Mozart per la virtuosa Caterina Cavalieri. Anche in lei si riscontrano stimbrature e strozzamenti nel registro acuto e sovracuto, al quale accede senza eccessivo sforzo ma dove la voce si fa pungente. Acuti più “lanciati” che controllati, e agilità non sempre ben sgranate, sono in parte compensate da un centro più a fuoco e meglio gestito. È da dire tuttavia che il punto culminante della sua prova, Martern aller Arten, l'aria in cui risolutamente rifiuta l'amore di Selim anche a costo di orribili torture e della morte, è di una difficoltà che sta alla pari con quelle di Astrifiammante (e d'altro canto son sempre arie di furore) o di Popoli di Tessaglia (dopo quest'aria, che conclude la scena III dell'atto II, la recita prevede l'unico intervallo della serata: ma perché mettere un intervallo dopo un atto e mezzo su tre?). Miglior espressione si ritrova nelle altre due arie, Ach, ich liebte e Traurigkeit ward mir zum Lose, in cui ha modo di mostrare una certa nobiltà di canto, sostenuta da un timbro cristallino: perché in effetti, al di là dell'uso e del ruolo, timbricamente la sua voce è bella; un po' fredda, forse, ma bella, lucida e smaltata, adatta ad esempio all'Händel degli Oratori. È che qui si trova alle prese con un ruolo davvero impegnativo.

Diverse, si diceva, le voci dei servitori. Blondine si giova dello spiccato senso musicale di Leonor Bonilla, che sfoggia voce morbida e melodiosa, piena in tutti i registri, cosa che si nota maggiormente per contrasto nei duetti con Pudova; acuti limpidi e ben proiettati si alternano a passaggi dialogici melodizzati con intelligenza, civetteria e spirito – nella sua Durch Zärtlichkeit und Schmeicheln fa capolino già l'arguzia di una Susanna o di una Despina; divertente e teatralmente efficace il trattamento attoriale del personaggio. Tenore chiaro, anch'egli di stampo belcantistico ma di fibra più robusta, Manuel Günther vivacizza il suo Pedrillo con consumata abilità scenica, modellando un personaggio brioso e frizzante, certo in accordo con una regia che lo vuole così, scanzonato e a suo modo ribelle, leggero ma arguto (anziché sussurrarglielo, «Belmonte ist hier!» glielo grida in faccia, a Blondine, dopo essersi assicurato che nessuno lo senta: risate per la sala…): ma se non ci fosse la sua abilità, gran parte di questi effetti speciali andrebbero persi. All'artista che desta la maggiore simpatia si accorda anche un gusto tutto particolare nel dar voce alle arie del suo personaggio: efficace la gamma di atteggiamenti espressivi in Frisch zum Kampfe!, che ben alterna coraggio e codardia; ma più che tutto è da lodare il duetto con Osmin Vivat Bacchus! Bacchus lebe!, spassosa boutade che più mozartiana non si potrebbe, resa con vivacità e gradevole leggerezza.

Osmin, per l'appunto: l'emblema di un esotismo forse, anzi senza forse, di maniera, con quei caratteri standardizzati dell'islamico collerico, brontolone e un po' sciocco, che da un lato, incattivito, sfocerà in Monostatos, dall'altro, con più bonomia, nel Mustafà di Rossini, ma che in fondo rispecchia il preconcetto e la turquoiserie del tempo di Mozart. Lo troviamo qui impersonato da Wilhelm Schwinghammer. La prestazione attoriale è valida, e ciò che si è detto poc'anzi trova realizzazione pratica nelle sue movenze e nei suoi atteggiamenti, ben calati nella parte. Vocalmente dispone di strumento valido, di buona scurezza, con un solido registro centrale, buone capacità di salire all'acuto senza problemi ma con un'estensione che raggiunge i gravi solo a patto di assottigliare il volume: il che, con la concertazione a favore dell'orchestra di cui sopra, non permette di apprezzare tali discese al grave nel migliore dei modi. Lo si apprezza comunque per la sua espressività e la vis comica sia nel già citato duetto di Bacco, sia in O, wie will ich triumphieren, sia nel suo intervento durante il Vaudeville conclusivo, aiutato dal ritmo martellante delle parole.

Da segnalare infine Sebastian Wendelin, attore che incarna un Pascià severo, integerrimo, verosimile per quanto la prosa teatrale lo permetta, e il quartetto dei giannizzeri formato da elementi scelti del Coro del Regio: Eugenia Brianova, Roberta Garelli, Leopoldo Lo Sciuto e Lorenzo Battagion. A tutti il pubblico del Regio, durante l'ultima recita di domenica 16 novembre 2025, di cui s'è dato conto, ha riservato applausi convinti, segno che anche un titolo (relativamente) poco conosciuto presso il grande pubblico può galvanizzare emozioni positive; se è ben fatto…

Christian Speranza

24/11/2025

Le foto del servizio sono di Mattia Gaido.