Alla fine del tempo dell'ulivo
di Piero Sammataro
Il Piccolo Teatro di Catania ha ospitato il 14 novembre, con repliche il 21 e il 22, un dramma di Piero Sammataro, il celebre attore scomparso a Catania appunto nel novembre del 2013, dal titolo Alla fine del tempo dell'ulivo, liberamente ispirato a Il Giardino dei Ciliegi di Cechov, opera della quale lo stesso Sammataro era stato interprete, a fianco di Valentina Cortese, nella celebre versione del 1974 firmata da Giorgio Strehler.
Trasportare in Sicilia i conflitti economici, generazionali e ideologici presenti nel Giardino cechoviano è senz'altro operazione interessante, data la lacerante staticità sociale che pervadeva la Russia zarista e che pervade ancor oggi la nostra terra, magari con risvolti ancor più dirompenti, data la globalità della crisi odierna, a ben vedere prolungamento di una situazione di difficoltà economica e culturale che attanaglia l'isola da molto prima dell'Unità, e che nessun governo è riuscito a risolvere, non sapendo, o non volendo, colmare il divario tra Nord e Sud che, ben individuato da Salvemini, è espressione non solo di un'economia statica, impastoiata dalla burocrazia e da altre meno legali, per non dire francamente criminose, zavorre, ma anche di una contorta mentalità che vede nel mantenere tutto immutato la migliore garanzia di tranquillità e di identità culturale.
E questa Sicilia sonnolenta, arroccata ai suoi privilegi baronali, al mito di una terra tanto simile alla roba di verghiana memoria, Sammataro ha descritto con lievi e incisive pennellate, tramutando i ciliegi di Cechov nei contorti ulivi saraceni, muse ispiratrici di Pirandello, di Camilleri, luogo di meditazione per il commissario Montalbano, metafora e simbolo di una Sicilia agricola, ripiegata su se stessa, sofferente, incapace di svettare verso l'alto e di aprirsi a nuovi orizzonti.
Il lavoro, scritto in un siciliano non aulico, ma immune dalle pesanti cadenze del teatro comico dialettale, si è dipanato con significativa lentezza, scandendo il pigro ma progressivo disinganno di una piccola nobiltà agricola, in profondo dissesto economico e incapace di cogliere una salvezza che viene da chi ha giustamente compreso che i tempi sono mutati e che a nulla vale arroccarsi nel rimpianto, espressione di un passato che non potrà più rivivere.
La regia di Saro Minardi, scarna ed essenziale, ma arricchita dalle proiezioni digitali a cura di Farolight, dalle luci di Simone Raimondo e dagli eleganti e curati costumi di Rosi Bellomia, ha permesso agli spettatori di concentrarsi appieno su un testo denso, dalla cultura trasparente, dove le situazioni e i dialoghi cechoviani erano stati calati con assoluta significanza nella dimensione isolana di fine Ottocento.
La musica di Giovanni Ferrauto, mai invasiva, trovava i suoi accenti migliori nella canzone La colonia di la genti dispirata, scritta sempre da Piero Sammataro e interpretata da Carmelita Celi, scandendo una recitazione di buon livello, affidata ad attori giovani e meno giovani, che hanno interpretato con grande entusiasmo un testo al quale, e lo si comprendeva appieno, erano anche sentimentalmente ed affettivamente legati. Tutta la compagnia, da Maria Grazia Cavallaro a Saro Pizzuto, da Giuseppe Balsamo a Silvia Corsaro Boccadifuoco, da Carmela Silvia Sanfilippo ad Amelia Martelli, da Gabriele Arena ad Enrico Manna, per finire con Nanni Battista, Daniele Sapio, Giovanni Calabretta e col bravo ed esperto Aldo Toscano, ha coinvolto il pubblico, lasciandolo lentamente immergere in un'atmosfera senza tempo, densa di echi del passato e di moniti per l'avvenire.
Giuliana Cutore
17/11/2015
Le foto del servizio sono di Orietta Scardino.
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