RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il était un Guillaume noir

Il Guillaume Tell scaligero in scena a marzo-aprile 2024 è occasione di rara ghiottoneria musicale. Primo, perché è cantato in francese, cosa che al Piermarini non era mai successa – tutti e dodici gli spettacoli passati, dal 1836 al 1988, son stati fatti nella traduzione di Calisto Bassi. Secondo, perché lo si esegue pressoché nella sua interezza: uno spettacolo che, intervalli compresi, arriva a toccare le cinque ore, e che avrebbe toccato le cinque e mezza – sei, includendo le poche pagine tagliate: «Ometteremo il pas de deux nei ballabili dell'Atto I, l'aria di Jemmy e una sezione del pas des soldats nell'Atto III. Le danze ci saranno tutte, così il trio Mathilde-Jemmy-Hedwige nel Finale dell'Atto IV. È dunque una versione analoga a quella che ho diretto al Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2013 [ma in quell'occasione l'aria di Jemmy venne eseguita], ripresa a Bologna nel 2014»: così dichiara il direttore, Michele Mariotti; dichiarazione che potrebbe includere anche il taglio del da capo della stretta del duetto Mathilde/Arnold. Quisquilie, in ogni caso, paragonate ai tagli selvaggi cui il Tell viene sottoposto ormai da quasi duecento anni (Donizetti ne conosceva addirittura una versione in tre atti anziché in quattro: il primo e il terzo, a suo dire, li aveva scritti Rossini; il secondo lo aveva scritto Dio…).

Se la ghiottoneria di cui sopra non rischia di trasformarsi in un polpettone indigesto a dispetto della lunghezza, il merito è di tre fattori. Il primo, ça va sans dire, è la musica di Rossini: un Rossini che inaspettatamente imbocca la via del romanticismo, e che, forse accorgendosi di aver scoperchiato un vaso di Pandora, non scriverà più per il teatro dopo quello storico 3 agosto 1829, quando all'Opéra vide debuttare quello che non sapeva ancora essere l'ultimo melodramma del suo catalogo. Eliminate quasi tutte le fioriture, i giochi sillabati, l'edonismo canoro, eccolo abbracciare lo stile francese, eccolo aderire col declamato al testo di Étienne de Jouy, poi scorciato e limato da Hippolyte Louis-Florent Bis.

Il secondo è l'encomiabile direzione di Mariotti. Pesarese lui, pesarese il Cigno, si vede che si intendono alla grande. Già solo l'Ouverture, che fa scoprire, grazie a un accurato lavoro di cesello, particolari generalmente tritati nella macina di esecuzioni sommarie (in tutti i sensi), come spesso accade per brani come questo sin troppo famosi, riscuote applausi entusiasti e prolungati alla recita di sabato 6 aprile 2024, di cui riferisco. Applausi peraltro meritati, per lui e per la splendida Orchestra scaligera, sfidata, sin dalle prime note di Massimo Polidori – primo violoncello di maliosa, quasi sensuale seduttività –, in una gara di resistenza da cui esce pienamente vincitrice grazie a una qualità e una pulizia di suono di altissimo livello: ottoni squillanti, legni melodiosi, archi precisi e scattanti, pieni orchestrali vigorosi ma non fracassoni; e che meraviglia, quello scavare nel grave dove sembra, ascoltando, quasi di veder vibrare le corde dei contrabbassi! Quanto a Mariotti, evidentemente a suo agio con partiture oceaniche – vedi già lo splendido lavoro sul recente Mefistofele boitiano a Roma –, oltre a compulsare i pentagrammi rossiniani, offrirne una lettura equilibrata e calibrare il duplice registro delle stasi liriche e delle accelerate narrative, a doppia mira tende il voler, da un lato concertando come meglio non potrebbe, senza mai sovrastare i cantanti, dall'altro non facendo mai calare la tensione, pur senza affrettare i tempi o velocizzando la drammaturgia, ripeto, qui restituita nella sua quasi integralità. Risultato, come si diceva, uno spettacolo che fila via con una durée bergsonianamente addirittura inferiore al temps , con dei finali d'atto, il primo soprattutto, letteralmente galvanizzanti.

Il terzo è il fattore cast, a dir poco strepitoso. D'altronde, quando si parte con Michele Pertusi nel ruolo eponimo, il successo è assicurato. Il timbro si è scurito, da quando ad esempio lo interpretò al ROF nel 1995: e questo, assieme alla naturale nobiltà di canto, rende il suo Guillaume ancor più nume tutelare della libertà elvetica, ancor più ammantato di gravitas, concretizzata dalla sua consumata abilità di calarsi nel personaggio; nei momenti di maggior concitazione emotiva, poi, tornisce la parola con efficacissimi effetti di reale furore. Neanche a dirlo, Sois immobile scatena un'ovazione di Bravo!

L'impervio ruolo di Arnold è sostenuto da Dmitry Korchak; la sua prodigiosa tempra vocale, un timbro squillante e un volume più che adeguato regalano una prestazione ottimale dall'inizio alla fine e almeno due momenti indimenticabili: il grande duetto con Mathilde al secondo atto e, più ancora, l'aria del quarto, Asile héréditaire, con quell'eroica cabaletta ai limiti della legalità, Amis, amis, perfusa di acuti di forza, tutti risolti magnificamente, e ripetuta come prescritto. Sua innamorata è la Mathilde di Salome Jicia, che, pur facendo registrare un fraseggio poco morbido e una certa difficoltà nel proiettare la voce nel registro acuto, specialmente nell'aria del terzo atto Pour notre amour, dove anche le piroette vocali riescono non sempre leggiadre quanto si vorrebbe, offre una buona prova nei due grandi duetti con Arnold e dà il meglio in Sombre forêt, la romanza del secondo atto, cantata con commossa partecipazione ed eleganza di legato.

Dopo l'indisposto Noè donizettiano a Bergamo nel dicembre scorso, ho finalmente la possibilità di apprezzare e applaudire il timbro caldo e la convincente vocalità di Nahuel Di Pierro quale Walter Furst. Autorevole e persuasivo anche il Melcthal di Evgeny Stavinsky, così come magnetico e fortemente connotato il Gesler di Luca Tittoto, al quale minime movenze del capo e lievi flessioni di intonazione sono sufficienti per dipingere, più che un sadico e spietato dittatore, letteralmente un sulfureo genio del male. Accostare in questa carrellata Melcthal e Gesler non è improprio, se il lettore discenderà a breve nei gironi della regia. Carrellata dove è opportuno elogiare anche il pescatore Ruodi di Dave Monaco, che si inerpica su per l'acuta tessitura del suo Accours dans ma nacelle con insospettata agilità, e il solido ed espressivo Leuthold di Paul Grant. Jemmy è la bravissima Catherine Trottmann, che delinea un personaggio credibile tra aneliti di giovanile eroismo e comprensibili paralisi di terrore, con voce piena, morbida e pastosa. Menzione di merito infine per la Hedwige di Géraldine Chauvet, che ha modo di esibire il suo strumento vellutato e corposo soprattutto nella preghiera del quarto atto, Toi, qui du faible.

Il Rodolphe un po' sbiadito di Brayan Ávila Martinez e il robusto Cacciatore di Huanhong Li, allievo dell'Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala, completano il cast, al quale si aggiunge la maiuscola e lodevolissima prestazione del Coro, sapientemente diretto da Alberto Malazzi, ben più di un comprimario, in questo caso, ma vero e proprio personaggio collettivo.

Se il lato vocale soddisfa, e non poco, del pari delude, e non poco, l'aspetto registico, affidato a Chiara Muti. Scordiamoci la Svizzera pastorale del libretto, che si profonda inutilmente in didascalie particolareggiate; vanifichiamo il lavoro di Cicéri, scenografo dell'Opéra, che per il Tell andò in giro per la Svizzera come Loge per il vasto mondo, a far bozzetti. Attualizzando il soggetto, il sipario si apre su un «volgo disperso, che nome non ha»: perché, che si tratti del popolo svizzero, certo non si deduce dalla messinscena, né che sia la Svizzera quella patria oppressa che Tell libererà da degli Asburgo altrettanto non identificabili, armati allo stesso modo di mitra e spade, spallacci di armature medievali per gli sgherri e armature complete per le comparse. I costumi di Ursula Patzak variano leggermente per Tell, sempre comunque in grigio, e per Arnold, in trench nero. In questo grigiore spiccano gli abiti bianchi delle tre spose del primo atto, che dopo essere state violate a vista dagli sgherri di Gesler – accanto a sposi indifferenti –, si macchiano di rosso, come rossi sono la cappa e il mantello di Gesler stesso, rappresentazione del demonio in persona attorniato da chanteuse in abiti vagamente anni Venti, simbolo dei sette peccati capitali. Che siano tali, si capisce solo leggendo quanto scrive l'oscura Chiara sul programma di sala, che sospingendo la sua prosa a forza di punti esclamativi non per questo risulta più convincente. E torniamo al fatto che se una regia, per essere compresa, deve essere spiegata, ha fallito in partenza. Accostare Gesler a Melcthal, si diceva, non è peregrino, perché, se il primo è il diavolo, il secondo è l'acqua santa: nel primo atto, Melcthal benedice le coppie dall'alto di una scala adorna di rami d'ulivo, con folta barba e capelli fluenti; nel secondo, apparizione rediviva mentre se ne narra l'uccisione, viene sdraiato su una struttura basculante che, una volta eretta, lo vede messo in croce, con tanto di corona di spine e guardie a irriderlo. Vorrebbe essere drammatico: ma se da un lato per chi crede può scadere vagamente nel blasfemo, per i più goliardici può ricordare un certo impiegato medio crocifisso in sala mensa…

Il volgo non ha un nome e nemmeno una personalità, uniformato nell'identità di grigie divise da carcerati: perché è questo ciò che sembrano, stipati in neri palazzoni squadrati, alti e stretti, i parallelepipedi mobili elementi delle scene di Alessandro Camera, con inferriate alle finestre. Carcerati nel corpo e anche nella mente, obnubilata dai tablet che tengono in mano o appeso al collo, ai cui schermi luminosi rivolgono ebeti sguardi, simulacri di una realtà altra nella quale alinearsi per non pensare al giogo dominatore, oppure erogatori di messaggi di falsa e rincuorante bonomia, quasi un Grande Fratello in chiave moderna, pericolosamente simile alla mondiglia massmediatica che oggigiorno incanta a mo' di danza di Kaa il popolino dei salotti casalinghi. Particolare, questo degli “egofoni” (neologismo di Michele Mari che traduce alla lettera un noto prodotto Apple… che con la mela del Tell può avere qualche attinenza), presente ma non sviluppato come tematica nel corso dello spettacolo, cosa che lo rende, più che un sottotesto semantico o una chiave di lettura alternativa (o distorsiva), un espediente utile ai fini di una sua integrazione nell'illuminotecnica di Vincent Longuemare, utilizzati come riflettori da puntare contro questo o quel personaggio per enfatizzarne il contrasto cromatico nel nero in cui altrimenti si perderebbero, proprio come le torce delle femme fatale che durante il balletto si rilevano quali uniche luci puntate sulle coreografie di Silvia Giordano.

Siamo in un'epoca indefinita, moderna, forse postapocalittica, che piace tanto, tutto cupo, tutto nero, tutto bruciato o quasi, come il bambolotto e l'aquilone dei bambini del primo atto, come il tiro a segno circolare dove Jemmy prova la sua mira, e della ridente Svizzera alpina non c'è più traccia. Volutamente, certo, per dare l'idea della soggiogazione fisica e naturale del crudel oppressor. Dovrebbe essere ispirato, per esplicita dichiarazione, a Metropolis di Fritz Lang del 1927. Ma poi si aggiunge la Morte che agita la falce nella nebbia, nel quarto atto, i tablet, le armature, i mitra, Satana, Gesù… e ne esce un teratoma registico che il reattivo pubblico della Scala non manca di contestare, come il coro di Buu! che saluta, dopo un timido applauso che stenta a decollare, il termine dei ballabili del terzo atto, ove si inscenano soprusi sul popolo per il sollazzo di Gesler, tra cui anche un waterboarding.

La natura inizia a vedersi solo dopo due atti e mezzo, anticipata dal fondo stellato entro cui Mathilde canta Sombre forêt: ma è comunque una natura senza vita. A metà del terzo, ecco un albero nodoso e 'nvolto, spoglio e secco, forse l'ulivo da cui sono stati tratti i rami del primo (e sul quale ricompare il velo insanguinato di una sposa), contro cui Jemmy aspetta la freccia: scena suggestiva con Pertusi che prende la mira con la balestra (visto il contesto, ci si poteva aspettare un revolver). La mela non schizza via come dice il libretto, ma resta conficcata nell'albero: se pensiamo che velocità di una freccia scagliata da una balestra è tale che può bucare una moneta, dai 150 ai 200 Km/h, una mela avrebbe resistito? Riesce ad affacciarsi soltanto all'ultima scena, con uno sfondo di cascate nel verde, timida ripresa di vita dopo vessazioni infinite, e dopo che Guillaume combatte più contro se stesso che contro la tempesta, dietro un velo che lo vede ombra cinese dimenantesi come in una danza pirrica. Ma questo improvviso, tenue chiarore non basta a dissolvere l'impressione di essere ancora immersi nel buio che ha dominato per quattro ore. Non sempre attualizzare è una buona idea, specie quando si hanno, come in questo caso, molte idee e confuse. Ma bene o male, purché se ne parli…

Christian Speranza

8/4/2024

Le foto del servizio sono di Brescia&Amisano.