Gli anni di pellegrinaggio di Felix
L'integrale delle Sinfonie di Mendelssohn dirette da Daniele Gatti giunge al terzo e ultimo appuntamento col concerto di giovedì 19 gennaio 2023, di cui si riferisce (in replica venerdì 20). In programma la Quarta e la Quinta, eseguite come le altre dall'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) all'auditorium Arturo Toscanini di Torino.
Si parte con la Sinfonia nº4 in la maggiore Op.90 (MWV N 16), abbozzata nel 1830-31 durante il grand tour per l'Italia, conclusa nel 1833 a Berlino ed eseguita per la prima volta a Londra il 13 maggio dello stesso anno: quarta in ordine di pubblicazione, peraltro postuma, nel 1851, poiché l'autore non la volle mai dare alle stampe – eccessivamente autocritico, non bastò nemmeno la revisione del 1834 per convincerlo a farla uscire dal cassetto –, ma terza in ordine di completamento, dopo la Prima Op.11 nel 1824 e la Quinta Op.107 nel 1830.
I viaggi compiuti attraverso l'Europa, i suoi anni di pellegrinaggio, furono fecondi di idee e spunti musicali per Mendelssohn: prima gli abbozzi di Scozzese ed Ebridi, proprio in terra scota, nel 1829; poi, scendendo giù per lo Stivale, le suggestioni di danze e panorami italiani inondati di Sole («Luce! Luce!» scriveva entusiasta da Roma, aprendo le finestre), che si estrinsecano nei primi schizzi della sinfonia in la maggiore, più tardi conosciuta col soprannome di Italiana: la Quarta, appunto. Ma non è tutto. Nel 1830, Mendelssohn aveva iniziato a lavorare a un'altra partitura sinfonica, per le celebrazioni del trecentesimo anniversario della Confessione di Augusta (1530): la sinfonia in re maggiore, anch'essa pubblicata postuma (1868) per gli stessi motivi dell' Italiana come nº5 Op.107, passata alla storia col soprannome di La Riforma per i richiami alla liturgia luterana, primi fra tutti il cosiddetto Amen di Dresda nel primo movimento, una semplice scala ascendente che nel suo abbracciare un intervallo di quinta ha un che di salvifico e liberatorio – di cui si ricorderà Wagner utilizzandolo come uno dei Leitmotive del Parsifal –, e il corale Ein feste Burg ist unser Gott (Una solida rocca è il nostro Dio) come spunto per le elaborazioni motiviche e contrappuntistiche del quarto movimento.
Due pagine non rare, queste, nella programmazione media delle stagioni; tra le cinque sinfonie, le due più eseguite, forse a parimerito con la Scozzese; fra i tre concerti in esame, quello apparentemente più scontato, inserito più per completare il ciclo che per un reale interesse di riscoperta verso le partiture. Apparentemente: ché, senza dimenticare Calvino quando scrive che un classico è un libro «che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», è sufficiente spostare l'angolazione, in questo caso offrire uno spunto di ascolto differente dal solco tracciato dalla tradizione, per illuminare di luce, se non affatto nuova, per lo meno inusitata, qualcosa che si credeva di conoscere bene. Ed è questo, principalmente, il merito della direzione di Gatti: un Mendelssohn che, nel primo movimento dell'Italiana, Allegro vivace, si spoglia di quel vitalismo che in certi casi diventa inopportuna frenesia, per acquisire i tratti di una fisionomia più composta ma più meditata, che riflette il lavorio compositivo che sottende, respingendo l'idea parrucchevole di un Mozart dell'Ottocento che compone di getto, senza pensare, come sotto l'impulso di forze superiori. La revisione del 1834 e la riluttanza alla pubblicazione fanno pensare invece a un labor limæ tutt'altro che scontato, che Gatti evidenzia nell'enucleazione di particolari della scrittura mendelssohniana: magistrale in questo senso la costante messa in staccata evidenza, nel secondo movimento, Andante con moto, peraltro innervato di una sfrontatezza che non gli è del tutto consona, della linea di basso, in pizzicato, agli archi gravi: la stessa filosofia di esecuzione che guidava Glenn Gould nel Preludio XXIV del Primo Libro del Clavicembalo ben temperato (BWV 869a). Il Con moto moderato seguente è un prodigio di leggiadria e fluidità, animato da una sincera serenità haydniana; nota di merito per la sezione degli oboi, Francesco Pomarico e Teresa Vicentini, e dei corni, Ettore Bongiovanni e Paolo Valeriani, negli appelli vagamente marziali, bonari e boscherecci del Trio (non così chiamato in partitura, ma di cui, con la sua armatura di chiave che passa da la maggiore a mi maggiore e la doppia stanga verticale, assolve la funzione). Il Saltarello conclusivo riprende, nel suo tempo ternario, l'Allegro vivace d'apertura, e per Gatti lo fa con lo stesso spirito, stemperando il Presto prescritto da Mendelssohn in un andamento più pacato ma non per questo meno coinvolgente; qualche veniale decremento di tensione qua e là non inficia una prestazione di alto livello, come pure un lieve appannamento della chiarezza della linea melodica nei pieni orchestrali e qualche imprecisione nelle turbinose terzine degli archi.
L'organico si amplia per l'esecuzione della Riforma: si aggiungono alcune file di violini, il controfagotto ai legni, tre tromboni e cimbasso agli ottoni. E qui va notato che, probabilmente per irreperibilità dello strumento, ormai confinato in qualche polverosa teca museale, il cimbasso è stato usato come rimpiazzo del ben più desueto serpentone, previsto da Mendelssohn in partitura (molto belli e artistici quelli che si possono ammirare al MIM, il Musée des instruments de musique di Bruxelles), strumento che avrebbe conferito, assieme ai tromboni, quell'aura di suono evocato dall'antichità. Note filologiche a parte, e senza scomodare lo sdegno di Godard, unico solista di serpentone contemporaneo, torniamo a godere, grazie a Gatti, di un'interpretazione qualitativamente elevata. Ineffabile: ineffabile è l'aggettivo giusto per connotare l'Amen di Dresda quasi in apertura dell'Andante, l'introduzione al primo movimento: le quattro note ascendenti sono unite sulla carta da una legatura di portamento che le stacca nettamente dall'ultimo Mi tenuto, e all'orecchio tale stacco si avverte eccome, come se nel mentre gli archi, e l'ascoltatore, dovessero respirare, dovessero prendere fiato insieme: ed è quel che succede: gli archi “respirano” in questa ouverture così aerea e solenne. Tanta ineffabilità si capovolge in appassionata drammaticità beethoveniana nell'Allegro con fuoco seguente, e continua a travolgere fino a stemperarsi nell' Allegro vivace , che Gatti propone come spiritualmente uscito dallo stesso crogiolo in cui era stato forgiato il Vivace non troppo della Scozzese: riemerge la vispa allegria fiabesca del Mendelssohn più simpatico, appena più rustica. Da sottolineare la densa e calda cantabilità dei violoncelli nel cuore del movimento. A seguire un Andante che qui più che altrove è pervaso di pensosità e patetismo, e che richiama per alcuni istanti, pur senza le sue vibranti inquietudini, il Feierlich della Renana di Schumann. Ma è la solennità tronfia e vigorosa del potente finale, ben distante da quella eterea dell'Amen d'apertura, a coronare il ciclo Mendelssohn: le note del corale luterano si stagliano come scolpite nel suono, note ribattute e ben scandite, cariche di pregnanza, impreziosite da un trattamento fugato del quale sfuggono le sottigliezze, preferendo Gatti un'esecuzione più melodica, olistica, nel senso etimologico di globale, collettivo, unitario, piuttosto che analitico e barocco.
Inutile riferire dell'interesse del pubblico, vivo e partecipe, e dei lunghi applausi rivolti sia all'orchestra sia al direttore. L'impegno di Gatti per Mendelssohn continua, dopo le tre tappe torinesi, con l'Elias all'Accademia di Santa Cecilia di Roma il mese prossimo. Chi può, non se lo perda!
Christian Speranza
1/2/2023
La foto del servizio è di PiùLuce.
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