Falstaff tra legni e legnate
Quando si dice “fare di necessità virtù”. In buca non ci sta tutta l'orchestra? Non c'è problema. Il palcoscenico è ristretto? Non c'è problema. «L'arte sta in questa massima», per dirla con Falstaff (per lo meno col Falstaff di Boito): fare di necessità virtù.
Esattamente ciò che è stato fatto per sopperire alle ridotte dimensioni del piccolo ma carinissimo Teatro Giuseppe Verdi di Busseto per inscenare proprio il Falstaff (il Falstaff di Verdi nel Teatro Verdi nella terra di Verdi: alla faccia delle strutture ricorsive!). Un Falstaff che Manuel Renga, regista, per questa occasione definisce «profondamente elisabettiano»; ma elisabettiano, vien da pensare, nel senso della compianta Elisabetta II, cui si rifanno i cappellini di Quickly, di Alice, di Meg e di Nannetta; l'”inglesità”, quella un po' caricaturale, stereotipata e un poco old style, veste tutti i personaggi di tinte pastello, di fantasie scozzesi, a quadri – solo Falstaff si concede qualche estrosità nel campo del giallo, dell'arancione, perfino con un copricapo un po' bizzarro; ma si sa, lui è lui, e lui può. Bardolfo, che ci tiene all'onore, è in cravatta e gilè, con buffe calze a righe, Pistola in cardigan e calzoni di fustagno, il Dottor Cajus in completo ocra con tanto di bastone e bombetta, Ford/Fontana tutto in verde scuro a quadri, Fenton un simpatico giovanotto di campagna con la coppola e la giacca verde. Per il trio di ladies, invece, gonne castigate quasi alla caviglia, giacchette, camicette e vestitini lilla e violetto molto a modo, molto respectable; la più giovane Nannetta osa vestito e scarpe rosse, le altre si limitano a delle t-shoes nere con tacco moderato, a dipingere una borghesia un po' bigotta e provinciale, a suo modo crudele. Ma quando è il momento di farsi bello per Alice, che aspetta il Sir non traendo accordi di liuto ma ascoltando un po' di radio, una di quelle radio anni '40, ecco Falstaff tutto in ghingheri come un lord , marsina nera, panciotto, camicia bianca e bastone. Una vera commedia inglese, con l'ilarità garantita dalle situazioni e da Bardolfo e Pistola travestiti da candide spose. Aurelio Colombo firma sia questi coloratissimi (ma mai volgarmente sgargianti) costumi, sia le scene. Oddio, scene: bisogna intendersi e, come dicevo, fare di necessità virtù. Il piccolo palcoscenico del Verdi è visto come una scatola aperta verso il pubblico, tre pareti nude color mattone in cui, al centro, diversi tavoli vicini evocano i tavoli dell'osteria della Giarrettiera ma anche un “fondo” imprecisato per la seconda parte del I atto, gli interni di Alice che si prestano a nascondere Falstaff quando viene ingannato al II, perché la cesta dei «pannilini biechi» è troppo esigua a contenere la sua «epa tronfia». Ma poi, oltre il boccascena, oltre il proscenio, la scatola si apre, ed ecco allungarsi sulla destra una pedana, un praticabile avanzato fino al primo palchetto, dove su una sedia a dondolo siedono prima Falstaff, poi Quickly: e in questa vicinanza col pubblico, in questa cornice di teatro così piccolo (e d'altro canto Verdi non voleva la Scala per rappresentarlo, ma il teatro di Sant'Agata), vien quasi a evocarsi un'atmosfera di intima familiarità con gli spettatori, con quel praticabile che vuole uscire dal teatro per diventare realtà e confidarsi all'orecchio di qualcuno. Non è un caso se il teatro inglese alla fine sconfina nella morale, se poco prima di Tutto nel mondo è burla vien detto «un coro e terminiam la scena», l'analogo del Questo è il fin mozartiano. La sedia a dondolo e il praticabile avanzato sono i luoghi, per Renga, della confessione, della verità: se il praticabile si avvicina fisicamente e metaforicamente al pubblico e sa di luogo appartato, dove il paravento di Fenton e Nannetta è perfetto per stare, la sedia a dondolo sa di persona che deve riposare, che è stanca, e non solo nel corpo: proprio come Falstaff all'inizio del III atto, col suo amaro «Mondo ladro. Mondo rubaldo». Le suggestioni registiche sono molteplici, qui impreziosite dai movimenti scenici di Giorgio Azzone e dalle luci di Giorgio Morelli. Al III atto dovrebbero comparire i personaggi travestiti da folletti e spiritelli, memori di Oberon e Puk: e invece le signore sono in abito da sera, luccicanti di paillettes, e non si sporcano le mani per malmenare Falsfaff, che geme, isolato, guarda caso, sul praticabile. E non è forse un “travestimento”, questo, rispetto ai feltri scipiti e naftalinosi degli altri due atti? Un travestimento morale, più che d'abito?
Rinunciare al paggio dell'osteria, che dovrebbe recapitare le lettere a Meg e Alice, e a Ned, Will, Tom e Isaac, i servitori che dovrebbero rovesciare la cesta del bucato nel Tamigi, non è gran peccato: le lettere arrivano in volo, calate dall'alto (siamo in Inghilterra: avrebbero potuto arrivare coi gufi magici di Harry Potter!), per la cesta ci pensano le signore. E non sembra neanche gran peccato rinunciare a qualche strumento in buca. A questo proposito, la recita del 30 settembre 2023, di cui riferisco, come pure le altre, si avvale del pregevole arrangiamento per ensemble a cura di Alessandro Palumbo, peraltro anche sul podio a dirigere. La proteiforme, continuamente cangiante differenziazione timbrica che qui Verdi mette in campo viene sostanzialmente mantenuta pur riducendo gli strumenti, ove a farla da padrone sono i legni: bastano infatti un flauto, un ottavino, un oboe, due clarinetti e un fagotto a Palumbo, per ricreare gran parte della magia verdiana, più due corni di rinforzo, ovvero l'ensemble di fiati La Toscanini. A questi si aggiungano il Quintetto d'archi Kyiv Virtuosi (due violini, viola, violoncello e contrabbasso) e il pianoforte di Gianluca Ascheri, con funzione di raccordo e di percussioni, e il gioco è fatto: tredici esecutori per quattordici strumenti (Alice Sabbadin al flauto e all'ottavino). Bastano? Sì. Decisamente. Il pericolo di sovrastare le voci è scongiurato, tanto più che ci si mette di mezzo la concertazione attenta e delicata di Palumbo, che meglio di altri conosce le potenzialità dell'organico, avendo operato lui la riduzione. Ne risulta uno spettacolo godibilissimo, accattivante, dove, alla professionalità di ogni maestranza, si accompagna quel senso di domestico, di familiare, direi pure di crepuscolare, data l'opera e il soggetto, «tanto tanto per me consolatori[o]».
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza ottimi professionisti sulla scena. Colpiscono la sonorità e la robustezza della Quickly di Adriana Di Paola, bella voce rotonda, d'ottone, collante dell'azione perfettamente calata nella parte che Renga immagina per lei, sorniona, complice e un po' pazzerella, che fa il paio con l'altrettanto affascinante vocalità e l'altrettanto efficace resa scenica dell'Alice di Ilaria Alida Quilico. Veronica Marini è impegnata nei panni di Nannetta, voce più squillante e giovanile, che meglio si attaglia al personaggio; bene anche per la Meg di Shaked Bar, che si vorrebbe riascoltare in ruoli più estesi per valutarla meglio. Il versante maschile vede la presenza di un possente e più che appropriato Andrea Borghini nei panni di Ford, che convince soprattutto nel suo monologo sulla gelosia (tranquillo, non te la tocca nessuno la tua Alice!). Gregory Bonfatti si destreggia quale Cajus, grazie al suo timbro più asprigno, e probabilmente sarebbe a suo agio come Mime o in un ruolo tenorile russo; ad ogni modo, appropriato per impersonare il querulo Cajus, che si ritrova sposo di Bardolfo. Ecco, Bardolfo: Roberto Covatta si adopera per renderlo al meglio e ci riesce, avendo cura di tratteggiarlo non solo con la voce ma con la gestualità scenica, davvero spassosa (però, Bardolfo, però, signor Renga, orinare di spalle al pubblico in un pitale ad apertura di sipario, potevasi evitare…); lo stesso dicasi per il Pistola di Andrea Pellegrini, realistico nelle movenze e vocalmente ben centrato. E il giovane Fenton? Gli studi chimici di chi scrive collegano il suo nome a una reazione radicalica; ma qui per noi è il valente Vasyl Solodkyy, cui manca poco a una maturazione artistica e vocale che già così si annuncia promettente.
Effe di Falstaff, effe di Franco. Franco Vassallo. Se già era stato uno splendido Francesco Foscari a Genova pochi mesi or sono, distinguendosi per un notevole pathos, lo ritrovo qui, passato dal Verdi giovanile al Verdi maturo, capace di incarnare un Falstaff vivo, arguto, comico ma non buffo, che fa ridere e pensare insieme (vengono in mente alcune riflessioni del Riso di Bergson); vero mattatore della serata, si spende in un'intesa parola-musica-mimica di facile, convincente comunicatività e di sicura presa sul pubblico, restituendo un Falstaff sì spudorato e a tratti irriverente, ma non volgare, non smargiasso (è pur sempre un baronetto), il tutto servito da una voce corposa, densa, straordinariamente plastica soprattutto ripensata alla luce della drammaticità con cui aveva impersonato Foscari. Meritatamente guadagnati, perciò, gli applausi a fine serata, a lui come a tutto il cast, al direttore e agli orchestrali.
Christian Speranza
2/10/2023
Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.
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