Gatti e Beethoven: gran finale
Il concerto di venerdì 27/05/2016 all'Auditorium Giovanni Agnelli di Torino ha concluso la stagione di Lingottomusica e l'integrale delle Sinfonie di Beethoven dirette da Daniele Gatti alla testa della Mahler Chamber Orchestra (MCO). In programma stavolta l'Ottava e la Nona Sinfonia.
Nata nel 1811-1812, la Sinfonia n ° 8 in fa maggiore Op. 93, pur apparentemente ricalcando lo stilema del Settecento viennese, lo supera e lo riconsidera in prospettiva, arricchendolo di humour e gaiezza: nel secondo movimento, ad esempio, è citato un canone scherzoso, di Beethoven stesso, dedicato a Mälzel, inventore, proprio in quegli anni, del metronomo (Ta ta ta lieber Mälzel WoO 162). Ma, lungi dall'essere semplicemente un amarcord nostalgico dell'eredità mozartiana e haydniana, l'Ottava rientra in quel gruppo di composizioni beethoveniane in cui l'autore ricerca la perfezione formale di un modello considerato come riferimento essenziale dal quale muoversi per le successive ricerche, al tempo stesso punto di arrivo e punto di partenza di un pensiero musicale in continua evoluzione – in Beethoven nessuna opera è mai involutiva – (analogo discorso per il passaggio dalla Terza Sinfonia “Eroica” alla Quarta o per le ultime due Sonate per violino e pianoforte : dopo la ponderosa, esuberante Nona Op. 47 “a Kreutzer”, la Decima Op. 96 suona come il paradigma della Sonata classica). Nell'Ottava, ad esempio, non mancano soluzioni ritmiche e armoniche innovative (che attirarono le simpatie del neoclassico Stravinskij): il salto di doppia ottava come elemento propulsivo nel primo movimento, rapporti armonici non stereotipati, la mancanza, proprio come nella Settima, di un movimento lento (della quale, scrive Carli Ballola, l'Ottava è «l'eco affievolita e aggraziata»), ecc.
La direzione di Gatti si presenta adagiata su velocità convenzionali, almeno per i primi due movimenti, e piuttosto equilibrata, entusiasta quanto concede la musica stessa, senza deviare dallo spirito classicista che la anima: anche lo sviluppo del primo movimento si mantiene misurato, evitando di esacerbare i contrasti (pur presenti) oltre i limiti del buon gusto. Nell'Allegretto scherzando (col tema del Mälzelkanon) Gatti cerca di alleggerire i bassi per non appesantire la resa complessiva di un movimento che deve presentarsi agile come il meccanismo di un carillon: non vi riesce del tutto. Il risultato è grazioso, ma un poco goffo, salvo le ultime battute di sapore spiccatamente mozartiano. Riesce meglio nel movimento successivo, dove trattiene gli sforzati della sezione grave degli archi con lo stesso intento: la rustichezza quasi haydniana con cui attacca è smorzata in vista di quella superiore lettura più apollinea e meno dionisiaca che è la cifra complessiva della “sua” Ottava, coerentemente con la dizione beethoveniana di questo movimento di Tempo di minuetto, e non di Scherzo. Probabilmente Gatti ha cercato di interpretare il movimento non solo nella velocità, ma anche nello spirito di un minuetto settecentesco, beninteso “alla Beethoven”. Sorprende, e in parte delude, la scelta di rallentare l'ultimo Allegro vivac, la cui “vivacità” è stata ancora una volta (troppo?) controllata, come un sorriso a mezza bocca. Tale atteggiamento è stato mantenuto anche quando il movimento ha raggiunto le zone più concitate dello sviluppo. Nel complesso, però, si può notare una certa coerenza da parte di Gatti: la direzione di questa Ottava è parsa simile a quella della Settima presentata nel concerto del 04/02, sempre con la MCO per Lingottomusica: considerando che Settima e Ottava hanno avuto genesi contemporanea e sono in qualche modo imparentate nella sublimazione dei contrasti più visceralmente beethoveniani del “periodo titanico” (si pensi all'”Eroica”, alla Quinta, al Coriolano…), può avere senso un gusto direttoriale accomunante.
Ineccepibile la MCO, che presta un suono brillante e schietto alla partitura, con nota di merito per i corni nel terzo movimento, solitamente a rischio di scivoloni, qui invece perfetti.
La Sinfonia n ° 9 in re minore Op. 125, forse il brano più famoso di tutta la storia della musica, rappresenta per Beethoven la realizzazione di un desiderio covato a fasi alterne per almeno un decennio: una sinfonia con un finale in cui le voci umane intonassero l'ode An die Freude (Alla gioia) di Friedrich Schiller, poesia che affascinava Beethoven fin dalla giovinezza. Mai nessuno aveva tentato un connubio voce-musica in una sinfonia, e questo tentativo, unito al messaggio di fratellanza universale che giunge come traguardo dopo il faticoso cammino dei primi tre movimenti strumentali, avrebbe ispirato l'emulazione da parte dei Romantici (Mendelssohn, Sinfonia “Lobgesang” Op. 52: tre movimenti per sola orchestra e finale cantato, su testo biblico) e dei Postromantici (Mahler, Seconda e Quarta Sinfonia), che, a vario titolo, avrebbero provato a superare il risultato beethoveniano, personalmente senza riuscirci. Ma, accanto a sostenitori entusiasti, come Wagner, la Nona si attirò anche dei detrattori. «Non mi sorprenderei affatto se qualcuno venisse a dirmi che la Nona è scritta male» disse Verdi; e, con lui, altri (Fétis e Della Corte) vi videro, come Liszt nella Seconda Sonata di Chopin, «più volontà che ispirazione». I capolavori hanno sempre in sé qualcosa di rivoluzionario («L'arte è o plagio o rivoluzione»: Gauguin) ed è normale che non suscitino quasi mai reazioni unanimi. Oltretutto, per Beethoven il momento creativo della Nona coincise con l'approfondimento del rapporto parola-musica (il periodo di stesura della Nona è lo stesso della Missa Solemnis Op. 123), e, a distanza dalla première (Vienna, 7 maggio 1824, Teatro di Porta Carinzia), Beethoven continuò a parlare di sostituire il finale corale con un brano puramente strumentale (la progettata Decima sarebbe stata infatti un ritorno alla sinfonia senza voci). Nessun lavoro fu più elaborato e ripensato della Nona, neanche la Missa o il Fidelio: ancora alla fine del 1823, con già i primi tre movimenti pronti, Beethoven si trovava in dubbio se concludere la Sinfonia con o senza il coro. Sia come sia, la Nona come la conosciamo oggi affascina per il suo messaggio (che Klimt raffigurò su tre pareti nel 1902 al Palazzo della Secessione di Vienna con un eroe in armatura che, dopo aver affrontato diversi mostri, arriva fra le braccia di una donna: «Questo bacio al mondo intero»), per la sua architettura e, diciamolo pure, per la bellezza della sua musica.
Per la sua esecuzione, Gatti non ingrandisce la MCO, che resta di dodici violini primi. L'Allegro ma non troppo, un poco maestoso viene iniziato con un insolito spirito vitalistico, quasi con affanno, sminuendo in parte l'ingresso del primo tema (che compare già, in nuce, nell'introduzione della Seconda Sinfonia, di ben vent'anni prima!). Questo affanno fortunatamente si placa dopo poche battute, e il movimento scorre con velocità e dinamiche tradizionali. Interessanti lumeggiature sulla strumentazione secondaria, però, illustrano la perizia della scrittura beethoveniana (e dell'esecuzione della MCO), soprattutto l'evidente attenzione per corni, legni e bassi. Più interessante la direzione dello Scherzo: il tempo è un Molto vivace da manuale, con un'attenzione massima per i ritenuti e gli a tempo che scandiscono la partitura, osservati scrupolosamente (un po' meno marcata la scansione in “Ritmo di tre battute” e “Ritmo di quattro battute”, artificio per raggruppare il fraseggio a tre/quattro battute alla volta). Ben diretto anche il Trio (eccezionalmente in 2/2), non accelerato come spesso capita di ascoltare. Qualche perplessità ha suscitato la dinamica dei timpani: mentre nella prima ripetizione i quattro interventi scoperti che interrompono il discorso dei fiati vengono eseguiti forte-forte-forte-piano, alla seconda vengono eseguiti forte-forte-forte-fortissimo in crescendo, come se il timpano, non venendo ascoltato dall'orchestra, si “adirasse” e cercasse di alzare la voce. L'interpretazione non dispiace, sebbene una lettura più aderente alla partitura sarebbe stata comunque più gradita. Dopo lo scatenamento di forze telluriche nei primi due movimenti, l'Adagio molto e cantabile è un'oasi di pace, in cui Gatti sembra però non voler indugiare troppo: l'esecuzione è sì lenta, ma non ristagna, non scava nelle note, e le variazioni dei due temi scorrono via senza troppo lasciare il segno, ben eseguite, ma in certi punti poco profonde. Quasi contagiata da tale lettura, tutta la prima parte del quarto movimento sembra risentire di questa scarsa attenzione al dettaglio (si parla comunque di particolari che non inficiano il valore dell'esecuzione, né della direzione, che si attesta in ogni caso su alti livelli). L'entrata del Presto, con le dissonanze a piena orchestra, è d'effetto. Si articola poi la linea nuda di violoncelli e contrabbassi che, “scartando” una ad una le proposte dell'orchestra, che ripropone gli incipit dei primi tre movimenti, intona il celebre tema dell'ode Alla gioia. Questa linea è eseguita selon le caractère d'un Recitative, mais in tempo, quindi non troppo rallentata rispetto al Presto iniziale; e va bene: ma le varie sezioni sono eseguite come affastellate, una via l'altra, come ignorando il gioco di domanda e risposta, senza dare il giusto peso a quelle piccole pause che sono come le virgole nel discorso (stessa situazione tra la fine del primo intervento corale e l'inizio della sezione solistica del tenore). Apprezzabile l'intervento del basso Steven Humes, con qualche comprensibile difficoltà nell'acuto, vista la tessitura richiesta (sarebbe più adatta la voce di un basso-baritono, più in voga all'epoca della Nona); discontinui quelli del Cor de Cambra del Palau de la Música Catalana e dell'Orfeó Català, formazioni corali istruite da Josep Vila i Casañas, talvolta poco omogenee nella resa d'insieme. Poca omogeneità anche per il quartetto solistico, costituito, oltre che dal già citato Humes, dal tenore Torsten Kerl (la cui prestazione nel momento solistico non delude), dal soprano Christiane Oelze (alla quale va la predilezione dello scrivente per l'incisione integrale delle Cantate di Bach con Rilling) e del mezzosoprano Christa Meyer, che, a fronte di una buona esecuzione individuale, non si amalgamano troppo nel loro insieme. Sottigliezze che non hanno impedito al pubblico di dimostrare un altissimo gradimento con prolungati applausi. Quello che si guadagna ogni volta che si ascolta la Nona è la voglia di credere che prima o poi i popoli si abbracceranno fratelli come nelle parole di Schiller. È significativo che tale messaggio arrivi da un “orso” come il Beethoven terza maniera, burbero, isolato dalla sordità e pioniere nelle sperimentazioni degli ultimi Quartetti. Ci aveva già provato con la Fantasia corale Op. 80, inneggiando, col testo di Kuffner, alla bellezza e alla gioia della musica; con la Nona va oltre. Ma è ancora più significativo che il celebre tema dell'ode Alla gioia non sia di Beethoven: lo aveva già utilizzato Mozart nel settembre 1776 per il Misericordias Domini K 222. Tutto sommato anche banale, se vogliamo. È un tema popolare tedesco, classicamente squadrato nella struttura a otto battute più otto. Può forse deludere: ma che cosa ci sarebbe stato di più universale che cantare l'unione degli uomini con un tema che proviene già dagli uomini, rivestito delle parole giuste? Un messaggio che, utilizzando le parole che Beethoven scrisse sul frontespizio della Missa Solemnis (sorella in fratellanza della Nona), «Dai cuori, possa andare nuovamente ai cuori»!
Christian Speranza
7/6/2016
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