Il diamante nel supplì
La regia è la parte più caduca di uno spettacolo operistico: nasce da alchimie contingenti, attecchisce su un terreno accidentale, è legata a filo doppio (almeno quando “all'italiana”, non basata sul Konzept del Regietheater) alle capacità degli interpreti che tennero a battesimo quella produzione. Riproporla a distanza di decenni è operazione incauta anche se a farlo è il regista stesso, figuriamoci quando lui non c'è più. Il Don Carlo “di” Luchino Visconti – tra un paio d'anni ne ricorrerà il sessantesimo anniversario – continua a circolare, ieri attraverso l'assistente di Visconti, oggi per il tramite dell'assistente di quell'assistente: ed è uno dei più colossali falsi storici che si stia perpetrando nel teatro lirico, come sa chiunque abbia assistito, se non all'originale, ad una delle successive riprese realizzate ancora direttamente per mano viscontiana. Oggi, dunque, il mercato impone che Franco Zeffirelli non abbia lasciato i palcoscenici quel 15 giugno 2019 in cui abbandonò il mondo terreno: a ridosso della sua scomparsa, anzi, fiorirono “nuove produzioni” di spettacoli post mortem; e l'attuale centenario dalla nascita ha suggerito all'Opera di Roma la ripresa di un altro storico allestimento del regista fiorentino, inteso ormai più come brand del made in Italy che come uomo di teatro. A grande richiesta tornano quindi Pagliacci, che debuttarono nella capitale nel lontano 1992 per poi riapparire spesso, singolare caso di spettacolo tanto abbacinante sul piano visuale quanto pauperistico nella sostanza (nacque da lì la moda di proporre il capolavoro di Leoncavallo svincolato dall'accoppiata con Cavalleria rusticana, costringendo gli spettatori a una serata di soli ottanta minuti di musica, sebbene espansi da un ampio intervallo).
Riproposti da Stefano Trespidi, ufficiale riesumatore delle fatiche zeffirelliane, questi Pagliacci rappresentano dunque le vestigia di uno spettacolo storico, restituito in modo talvolta impreciso e disordinato, mantenendo però un'indubbia efficacia estetica almeno per chi non abbia assistito all'originale. Certo: quanti ricordano le recite del 1992 potranno lamentare una certa approssimazione nel disegno luci, che era uno degli aspetti più puntualmente curati da Zeffirelli; e la debordante quantità di personaggi in scena – mimi e giocolieri, acrobati e trampolieri, a tacere della pletora di bambini – appare meno disciplinatamente governata rispetto alle recite di trent'anni or sono. Il pubblico romano, comunque, continua a gradire moltissimo, tanto quanto aveva disamato i Pagliacci rarefatti e scarnificati messi in scena un lustro fa (quelli sì in tandem con Cavalleria) da Pippo Delbono. Resterebbe da parlare della regia in sé: da un lato la trasposizione in epoca moderna, intesa non come attualizzazione del testo – procedimento sempre estraneo a Zeffirelli – ma fedeltà allo spirito di Leoncavallo, che mirava appunto a un lavoro perennemente contemporaneo per gli spettatori; dall'altro la sostanziale, e forse preterintenzionale, contraddizione tra l'asciutto verismo della partitura e un gusto figurativo così ridondante da scantonare nella saturazione visiva. Ma l'occasione celebrativa non si presta a disamine ermeneutiche e, semmai, converrà puntare l'attenzione sulle grandi bellezze (l'arrivo del carro dei guitti, in primo luogo) sparpagliate all'interno di una (re)impaginazione non sempre raffinatissima. Un po' come quel diamante che i ricchi annoiati, nelle loro mense di beneficienza, inseriscono – a mo' di cinica lotteria – in uno dei supplì della mensa per i poveri.
Sul podio dell'orchestra romana sin dalle recite del '92, Daniel Oren torna a confrontarsi con questi Pagliacci. Direttore nato fuoriclasse, già all'epoca si era trasformato in routinier di gran lusso, ma oggi parrebbe arroccarsi dietro a una routine non più che solida e rassicurante. Tuttavia, pure nei suoi supplì è possibile trovare qualche diamante: il duetto Nedda-Silvio lascia incantati nel portamento dei violini e nel dipanarsi quasi wagneriano di certi cromatismi. Mentre i solisti (Oren è sempre stato un sapiente accompagnatore) sono costantemente ben sostenuti, a cominciare dal protagonista Luciano Ganci, tenore comunicativo e talentato, sebbene in un ruolo ai limiti delle proprie attuali possibilità: ne scaturisce un Canio singolarmente fresco e giovanile, nitido nella dizione, castigato (anche negli scatti più brucianti) nel fraseggio, a suo agio nelle espansioni acute piuttosto che in quel registro centrale su cui, però, più spesso gravita il personaggio.
Un po' sfocata e fuori ruolo la Nedda di Nino Machaidze, ottima cantante che forse al di là dei suoi Rossini e Bellini di elezione non ha molto da dire, mentre Vittorio Prato è un Silvio tanto accattivante scenicamente quanto pallido vocalmente. A pareggiare il conto provvede il Peppe di Matteo Falcier, che nella serenata di Arlecchino rinverdisce la tradizione degli illustri tenori di grazia che si sono cimentati con questo personaggio, mentre il bilancio si chiude definitivamente in attivo grazie a Amartuvshin Enkhbat. È lui il trionfatore della serata e, sebbene il suo resti un Tonio più “cantato” che “interpretato” (siamo sulla scia di Tagliabue e Bastianini piuttosto che di Tito Gobbi), rimane stupefacente come quest'artista mongolo sappia rinverdire la migliore scuola baritonale italiana. Timbro densissimo, suono perfettamente sostenuto e proiettato, omogeneità a tutte le altezze, pronuncia impeccabile: insomma ogni desiderata del grande cantante verdiano anche al servizio del verismo. Le puntature di tradizione (Sol e La bemolle del Prologo), poi, ci sono tutte, ma con una naturalezza così antiesibizionistica da far credere che siano scritte in partitura. E attenzione a come Enkhbat realizza le gag vocali – quei “rallentando ad libitum” e “declamato comicamente” affidati da Leoncavallo all'estro dell'interprete – nel siparietto in cui Tonio si trasforma in Taddeo: dimostra d'aver studiato a fondo tutte le registrazioni storiche, da Mario Basiola in giù, e preso il meglio ora dall'una ora dall'altra.
Paolo Patrizi
20/3/2023
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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