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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

L'eleganza di Mendelssohn, il gigantismo di Bruckner

Ad accomunare il programma del quattordicesimo concerto della stagione sinfonica in corso del Teatro La Fenice, sabato 29 giugno 2024, è la tonalità d'impianto. Il Concerto per violino e orchestra in mi minore Op.64 di Felix Mendelssohn-Bartholdy è un capolavoro di eleganza, di un Romanticismo equilibrato non estraneo al trasporto passionale, anche se meno rispetto ad altre pagine più infuocate dello stesso autore. Fu abbozzato nel 1835, ma venne terminato soltanto nel 1844 ed eseguito l'anno dopo, lungo un tira e molla in parte dovuto ad altri impegni del compositore, in parte ai frequenti ripensamenti sulla sua struttura, innovativa e per certi versi unica grazie a diverse particolarità: due su tutte, la cadenza al termine dello sviluppo, anziché della riesposizione, e la saldatura di primo e secondo movimento grazie a una nota dei fagotti.

Parlando di eleganza e di equilibrio, la Sinfonia nº7 in mi maggiore WAB 107 di Anton Bruckner è quella che più si avvicina a questi concetti, pur non potendo rinunciare per necessità espressive a quel gigantismo formale insito nella sua stessa concezione. Tanto per dire, è, tra le sue, la Sinfonia con l'impiego di percussioni più limitato e quella con il Finale più corto, più leggero, paragonato da Georg Tintner a quello di una Sinfonia di Haydn.

La Settima fu la prima che diede a Bruckner quella notorietà e quel riconoscimento che l'autore andò cercando per tutta la vita, pur osteggiata da certa critica filobrahmsiana che non mancò anche quella volta di lanciare i suoi strali attoscati. Ancora oggi si tratta, assieme alla Quarta e all'Ottava, di una delle più eseguite. Il 2024, anno del bicentenario della nascita di Bruckner, ha visto il risvegliarsi di un certo interesse per la sua musica da parte di alcune piazze italiane. La Fenice è una di quelle, che ha deciso di impaginare la triade delle suddette Sinfonie sinotticamente nella stessa stagione e di dare a ciascuna un tocco di ricercatezza in più. A febbraio sono state eseguite la Quarta nella terza versione del 1888 edita da Korstved nel 2004 (e non nella “solita” Nowak-1878/80) e l'Ottava prima versione del 1887 (e non la “solita” 1890).

La Settima viene presentata qui nella prima versione del 1883, quella che più si avvicina alla prima assoluta di Lipsia, del 30 settembre 1884, diretta da Arthur Nikisch, prima che Bruckner vi mettesse mano in vista della pubblicazione per Gutmann nel 1885.

Markus Stenz sale sul podio dell'Orchestra della Fenice trovando un complesso strumentale di ottimo suono e in gran spolvero, con legni dagli attacchi morbidi, archi vibranti e compatti, ottoni squillanti e bruniti ma, come si dirà, non ben coesi.

Ad aprire la serata, più che l'Orchestra, è Vikram Francesco Sedona, che fin da subito ammalia palchi e platea col suo violino, immediatamente impegnato nell'esposizione del primo tema del Concerto (altra particolarità). Il vincitore del XXXII Concorso Città di Vittorio Veneto conquista per l'espressività del suono, per quel suo approfondarsi nelle pieghe di un discorso che, in certi punti dell'Allegro molto appassionato e dell'Andante, diventano quasi un dialogo a tu per tu col pubblico, delicato nel trascolorare dei pianissimi sovracuti splendidamente tenuti, per il fraseggio dall'articolazione evidente, coglibile in più punti e che permette un'agevole comprensione della logica compositiva, e infine per quel virtuosismo che ha modo di sfoggiare nell'Allegro molto vivace conclusivo, dove brilla su e giù per le bravoure di scale e arpeggi snocciolati con lucido controllo e scaltrita perizia.

Ma se dietro ad ogni artista c'è un uomo, l'”uomo” Sedona (potremmo ancora dire il “ragazzo”, trevigiano classe 2000) ha dalla sua modestia e simpatia, a giudicare sia dai sorrisi sinceri con cui ringrazia dei calorosi applausi, sia dalla scenetta che, preparata o meno, suscita irresistibile benevolenza: «Sono indeciso: volete qualcosa che non avete mai ascoltato prima, o volete qualcosa di folkloristico?» domanda al pubblico per il fuori programma. La scelta ricade, come già a Torino nel concerto del 18 aprile scorso (dove aveva presentato uno stupendo Ventiduesimo di Viotti), sul suo amato Enescu, di cui esegue Menestrello, primo movimento della suite per violino e pianoforte Impressions d'enfance Op.28, corredandolo di spiegazione. Chapeau!

Stenz, da parte sua, asservisce l'orchestra al solista pur non divenendone succube, anzi, evidenziando passaggi solitamente negletti (ribattuti batt. 24-25 e 28-29), e la impronta a una certa sobrietà complessiva, da non intendersi come pesantezza o paludato grigiume, semmai come sottolineatura di quel clima raccolto e lirico che preferisce la via del ripiego intimista e che domina i primi due movimenti, avulso da esagitati turgori e che solo all'ultimo si apre a concessioni più dichiaratamente plateali.

Dimensione di sobrietà che ammanta anche la Settima, dove la riuscita sul piano espressivo presenta però alti e bassi. L'Allegro moderato ha, per esempio, tutto ciò che sulla carta è doveroso che ci sia: un bel suono pieno che “cerca” lo spazio, che lo amplia, con l'arcata dei violoncelli d'apertura ben distesa su due ottave, solidità, maestosità di incedere; anche una certa austerità. Eppure sembra mancare qualcosa. Sembra mancare lo scavo nel suono, la profondità. L'agogica snella, scattante, che insiste più sull'Allegro che sul moderato, sottrae parte dell'afflato grandioso che è alla base. Bruckner necessita di tempi lenti per essere compreso, come insegnava Celibidache, e la sua complessità non si coglie se appena si accelera di poco. Per contro, durante lo sviluppo si incontrano stasi che danno l'impressione di slegato, e che fanno perdere di vista la visione d'insieme. L'esecuzione recupera però nella coda, che, sebbene poco a fuoco nella sovrapposizione dei piani sonori, riesce a comunicare l'idea di quieta e aurea regalità, circonfusa di luce, affine in questo, per sonorità, al finale della Walküre, in mi maggiore anch'essa.

D'altronde, che la Settima sia intrisa di wagnerismo è risaputo. L'Adagio è dichiaratamente un epicedio per il «maestro di tutti i maestri», che proprio nel 1883 moriva a Venezia – ed ecco, se vogliamo, un legame con la Serenissima. A tal proposito è da notare che l'introduzione delle quattro tube wagneriane in orchestra, che si ripresenteranno nell' Ottava e nella Nona , è un esplicito omaggio a Wagner. Stenz qui ha cura di posizionarle accanto alla tuba e di fronte a trombe e tromboni, sulla destra, isolando dalla parte opposta dell'orchestra i quattro corni. Tale disposizione risponde a una logica che divide anche concettualmente la funzione più melodica dei corni da quella più timbrica delle tube, anziché accomunare tutti gli ottoni in un unico blocco. Il vertice di tutta la Settima , questo grandioso Adagio in cinque sezioni con coda, è il movimento meglio diretto. Si nota la cura del timbro, scuro e opprimente nelle sezioni A, contro il fraseggio accurato e scandito delle più aeree sezioni B. Veramente encomiabile è qui il grandioso crescendo costruito lungo la quinta sezione, con un empito che si gonfia battuta per battuta e si apre sul deflagrare di timpani, piatti e triangolo. È stato detto che, se le Sinfonie di Bruckner avessero incontrato fin da subito il favore di pubblico e critica, non si sarebbero impelagate nel ginepraio di versioni e revisioni. La Settima è la prova della giustezza di questa affermazione (di Buscaroli), perché le due versioni differiscono davvero di poco. Ma quel colpo di piatti e triangolo, pur figurando nella prima versione, è stato vergato da un'altra mano, e in seguito giudicato spurio. La vulgata vuole che sia stato aggiunto da Bruckner alla notizia della morte di Wagner; il critico inglese William Mann sostiene che sia stato Nikisch a convincere Bruckner ad aggiungerlo per l'esecuzione lipsiense. Anche trattandosi di prima versione, quindi, non è detto che risponda in toto al volere di Bruckner…

Le perplessità maggiori riguardano lo Scherzo. Anche qui si nota, come in Mendelssohn, la capacità di Stenz di evidenziare preziosismi strumentali normalmente taciuti, vedi il cromatismo di tromboni e tuba di batt. 49-50, ma non si comprende l'arbitrio di spezzare il continuum di tensione, previsto tutto in fortissimo, introducendo a batt. 65 un p-crescendo non scritto. Interpretazione versus rispetto del segno scritto – a meno che sia previsto nell'edizione seguita da Stenz. Al di là di ciò, l'agogica Sehr schnell è sì rispettata, ma estremizzata a un Presto che rende il brano una corsa affannosa, col motto della prima tromba secco e aspro e la perdita di mordente di quelle “ondate sinfoniche” che procedono per accumuli successivi di tensione.

Complessivamente ben riuscito il Finale, Mosso ma non veloce in cui a essere mosso è lo spirito vivo e saltellante dei temi, soprattutto nel primo, che viene qui colto con adeguata freschezza. All'opposto si contrappone il terzo, una pesante fanfara di tutti gli ottoni all'unisono e in ottava. Sul pesante ci siamo: resta da sistemare la coesione della sezione, come si accennava, in cui prevale la tuba con troppo vigore che “buca” l'amalgama.

Questo tuttavia non impedisce a Stenz e all'Orchestra di cogliere il plauso prolungato del pubblico, che non lesina impennate di entusiasmo alle diverse sezioni chiamate una per una ad alzarsi a ricevere la meritata dose di gloria.

Christian Speranza

4/7/2024