RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

41° Festival della Valle d'Itria a Martina Franca

Medea in Corinto, Don Checco e L'incoronazione di Poppea

Il Festival della Valle d'Itria nella bellissima Martina Franca, in Puglia, entra nel quarantunesimo anno di attività con una edizione fedele al filone belcantistico voluto da quello che fu il suo fondatore, Rodolfo Celletti, poi proseguito da Sergio Segalini ed oggi da Alberto Triola, il quale, nei più recenti anni della sua programmazione artistica, ha aperto i cartelloni anche all'opera del Novecento storico e a quella contemporanea (quest'anno è stata rappresentata la prima esecuzione assoluta de Le Braci di Marco Tutino) per poi proseguire sulle linee di principio più proprie al Festival, che sono appunto quelle dell'opera italiana che spazia dal Seicento all'Ottocento belcantistico. Scelte coraggiose anche alla luce del fatto che i titoli proposti sono sempre di rara esecuzione e, in alcuni casi, vere e proprie riscoperte.

Per Medea in Corinto non si tratta di una vera e propria novità. La complessa opera seria di Giovanni Simone Mayr, che risale al 1813 e nel corso dell'Ottocento godette di buona fortuna grazie agli interpreti di altissimo livello che la eseguirono sulle scene, anche in tempi moderni ha goduto di un certo giro. Leyla Gencer interpretò il ruolo della protagonista al San Carlo di Napoli nel 1977; la casa discografica Opera Rara la incise alcuni anni fa e, più recentemente, l'Opera di Monaco ne mise in scena nel 2010 una edizione di tutto rispetto, ripresa anche in video. Mayr, noto ai più per essere stato maestro di Donizetti, si conferma, ogni qualvolta viene ripreso un suo lavoro, compositore attento alla raffinatezza della scrittura orchestrale, inserita in un contesto drammatico a forti tinte come quello dell'opera in questione. La melodia fluisce generosa ma non approda a risultati memorabili anche quando Mayr utilizza l'espediente di ricorrere ad uno strumento concertante ad accompagnamento dell'aria, per donare un colore specifico alla scena. C'è insomma più ingegno che genio. Eppure, qualora si abbiano a disposizione interpreti adeguati e un direttore che dia respiro al colto ordito strumentale, l'opera convince pur non raggiungendo i risultati sommi che di lì a poco Rossini toccherà, con analoghe architetture formali, nelle opere serie del periodo napoletano. L'edizione di Martina Franca poteva contare sulla direzione di Fabio Luisi, da poco nominato direttore musicale del Festival della Valle d'Itria. Maestro di meriti internazionali, Luisi ha guidato l'opera con estrema attenzione alla raffinatezza della quale si è riferito, rendendo compatta la narrazione anche quando lo spettacolo di Benedetto Sicca la rendeva difficile attraverso una messa in scena cervellotica e poco chiara. L'onnipresente presenza dei danzatori della compagnia Fattoria Vittadini ha creato una sovrabbondanza di movimenti coreografici che fungevano da doppio all'azione dei protagonisti, in alcuni casi schiacciando la loro possibilità di far emergere i personaggi all'interno di un contesto visivo piuttosto confuso. Ai cantanti l'onore e l'onere di far rivivere parti che furono scritte per cantanti leggendari quali Isabella Colbran, che fu prima interprete della parte di Medea, in seguito poi affrontata anche da Giuditta Pasta, e da Andrea Nozzari, che fu Giasone e da Manuel García, che fu Egeo. Oggi il soprano Davinia Rodriguez ha temperamento giusto per il ruolo di Medea, ma ne patisce la declamazione, che insiste nel registro grave e centrale. Si deve pertanto costruire questi registri come può, e così, fra emissioni nasali e suoni poveri di sostanza sonora, porta a casa la parte con onore tentando di dare quanto più fuoco possibile alle invettive e alle maledizioni della furiosa maga. I due tenori sono assai bravi. Michael Spyres, nei panni di Giasone, avvicina con appropriatezza stilistica assoluta la tessitura centrale della sua parte, alla quale non manca di donare impennate in acuto risolte con interessanti suoni misti. Enea Scala è invece il classico tenore leggero all'italiana che risolve le difficoltà parimenti impervie della parte di Egeo forse con minore consapevolezza dello stile di canto ottocentesco ma con voce luminosa e ben proiettata. Validi tutti gli altri, compresa la buona Creusa di Mihaela Marcu.

Altra chicca del Festival è stata la riproposta del Don Checco di Nicola De Giosa, compositore barese vissuto fra il 1819 e il 1885. Questa spassosissima opera buffa è la sua più nota. A Napoli godeva anche dei favori del re Ferdinando II di Borbone, il quale pare si divertisse un mondo ogni qual volta la si rappresentava al Teatro di San Carlo di Napoli. De Giosa viene ricordato anche per essere stato direttore d'orchestra all'Opera del Cairo al tempo in cui Giuseppe Verdi compose Aida per celebrare l'apertura del Canale di Suez. Avrebbe dovuto dirigere lui la prima assoluta se Verdi stesso, per passati dissapori, non si fosse opposto preferendogli un altro direttore. Don Checco, che è datata 1850, raccoglie tutti i più scontati ingredienti dell'opera buffa ottocentesca, con smaccate citazioni a Donizetti, ma anche a Verdi; diverte l'ascoltatore da cima a fondo dimostrando come l'opera buffa fosse, ancora a fine Ottocento, un genere di consumo che in un più recente passato può essere paragonato al teatro di rivista o alla commedia musicale (l'opera alterna infatti pagine cantate a scene recitate), oppure ad un certo tipo di cinema comico all'italiana. Lo spettacolo visto a Martina Franca, montato con la gradevole regia di Lorenzo Amato, che firma uno spettacolo tradizionale e godibilissimo, seppure un poco scontato, poggia sulle sicure spalle di un direttore, Matteo Beltrami, che dirige l'opera in punta di penna, con una freschezza di tocco e un'ironia che suscitano sorriso e sincero senso del teatro. Sulla scena domina la comicità spontanea, ma insieme colta del bravissimo Domenico Colaianni, legata ad una tradizione di interpretare ruoli che furono del basso buffo Raffaele Casaccia basandosi su un canto “parlato” che richiede dominio assoluto della voce in funzione del sillabato ma soprattutto dell'espressione recitata in dialetto napoletano. Al suo fianco non sfigura Carmine Monaco, nei panni di Bertolaccio, così come la coppia di giovani innamorati, il gradevole soprano Carolina Lippo, nei panni Fiorina, e il tenore Francesco Castoro, tecnicamente ancora un poco acerbo ma promettente, in quelli di Carletto. Completano degnamente il cast Rocco Cavalluzzi, Roberto e Paolo Cauteruccio, Succhiello Scorticone.

Un discorso a parte per il quarto titolo in cartellone, questa volta non proposto nel cortile del Palazzo Ducale, come quelli dei quali si è fin qui riferito, bensì nel Chiostro di San Domenico. Si è trattato di una riduzione de L'incoronazione di Poppea di Monteverdi, affidata ad una compagnia di canto di giovani interpreti della Accademia del belcanto “Rodolfo Celletti” e ad una messa in scena firmata dall'enfant prodige Gianmaria Aliverta, che si è anche occupato in prima persona della “riduzione drammatica” del magnifico libretto su versi di Gian Francesco Busenello. Alcuni lo considerano un nuovo genio in erba della regia d'opera, addirittura adulato da taluni critici e giornalisti, quasi fosse già un regista affermato. Si è fatto conoscere a Milano per spettacoli messi in scena con poche manciate di euro, ma apprezzati per le idee. Anche a Martina Franca il low cost appare legato più al budget ridotto all'osso che alla buona volontà messa in essere da questo giovane regista nell'affrontare un'opera complessa da realizzare in uno spazio non facilmente utilizzabile, con elementi scenici che non vanno al di là di un bianco balcone ligneo coperto da cassette da frutta che paiono quelle dei mercati addobbate con fiori e da alcune scatole di legno munite di coperchio che delimitano lo spazio di una platea dove i cantanti recitano a stretto contatto col pubblico in estrosi ma originali abiti moderni: uno fra tutti quello del dio Mercurio, che indossa sneakers alati e pattini a rotelle. L'intuito di qualche bella soluzione registica c'è, come il duetto d'amore al telefono fra Nerone e Poppea, o come i cuoricini rossi a forma di palloncino che vengono lasciati alzarsi in volo quando Ottone intona il suo inno d'amore a Poppea. Ma un vero lavoro sulla fisionomia caratteriale dei personaggi ancora non si è visto in funzione del sensuale raggiro amoroso perpetrato in quest'opera per arrivismo politico; elementi che appaiono per di più frenati dalla direzione stilisticamente irreprensibile ma fin troppo rigidamente impostata di Antonio Greco, alla testa dell'Ensemble di strumenti originali “Cremona Antiqua”. Cantanti giovani e volenterosi, con alcune belle sorprese nelle voci delle promettenti Shaked Bar, Nerone, Quiteria Munoz Inglada, Poppea e Margherita Rotondi, Arnalta.

Anche quest'anno il Festival della Valle d'Itria, dinanzi alle offese della crisi, ha tenuto alto il nome della sua tradizione, contando sull'entusiasmo inesauribile di Franco Punzi, Presidente di quel Centro Artistico Musicale “Paolo Grassi” che fa da corona formativa e di idee ad una rassegna per la quale sono quest'anno giunti due importanti riconoscimenti: il patrocinio del Parlamento europeo e la targa conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione di un incontro al Palazzo del Quirinale.

Lunga vita ad un Festival che rende dunque onore alla tradizione operistica italiana nel segno delle scelte più raffinate, andando giustamente fiero del suo alto operato culturale.

Alessandro Mormile

5/8/2015

Le foto del servizio sono di Paolo Conserva.