RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

 Non il solito Pasquale

Presentare il Don Pasquale, una delle poche opere mai tramontate delle oltre settanta di Gaetano, ad un festival monografico come il Donizetti Opera di Bergamo, può sembrare un'occasione sprecata: perché non lasciare spazio a titoli meno conosciuti? Il Festival ha abituato nel corso delle edizioni a programmarne uno meno frequentato, uno di cui ricorrono i duecento anni, col progetto Donizetti 200, e uno noto, al quale però si apporta qualcosa di nuovo. La Lucia dell'anno scorso, ad esempio, è stata presentata nella non comune veste francese del 1839, la Lucie, ben più di una semplice traduzione. Nel caso specifico, la particolarità consiste nell'eseguire del Don Pasquale una nuova edizione critica, curata da Gabriele Dotto e Roger Parker, volta a proporre, in luogo della “solita” versione riveduta e corretta per la ripresa viennese (Kärtnertortheater, 14 maggio 1843), quella originale che debuttò al Théâtre-Italien di Parigi quattro mesi prima, il 3 gennaio 1843. Un'operazione che consente di scoprire alcune intenzioni originarie di Donizetti eclissate poi coi tagli di tradizione e le riscritture successive.

È così che ad esempio l'assolo di violoncello nella Sinfonia, che anticipa Com'è gentil, viene affidato al corno, scelta poi cassata in quanto il cornista dell'epoca non rese a dovere la parte; è così che vengono ripristinate alcune battute di Norina in cui dichiara di voler allestire alle quattro un pranzo per cinquanta invitati, che giustifica la battuta di Don Pasquale «un pranzo per cinquanta», altrimenti incomprensibile. Si esegue poi il duetto originale fra Don Pasquale e Malatesta al second'atto, e l'originale Cheti, cheti, immantinente più lungo e articolato. L'impiego del sassofono al posto della tromba in Povero Ernesto rimane invece appannaggio della produzione diretta da Ricardo Kanji, con la regia di Walter Neiva, che girò nel 2006 tra Polonia, Olanda e Belgio. L'idea del sassofono arrivò a Donizetti dal probabile incontro con Adolphe Sax, da poco arrivato a Parigi, ma non trovò realizzazione pratica forse per mancanza di sassofoni… e di sassofonisti. Finezze di filologia musicologica che mandano in solluchero gli specialisti e incuriosiscono i melomani (così come l'aver allestito il Devereux senza la Sinfonia scritta per la ripresa parigina del 1838, ma col Larghetto originale di undici battute che immette subito nell'azione, secondo la versione del debutto sancarliano del 1837).

Non il solito Pasquale, quindi. Stando ai fatti, si può dire che questa edizione debutta in Italia, in tempi moderni, proprio qui al Teatro Donizetti di Bergamo. E che in senso assoluto ri-debutta in territorio italico, dopo l'allestimento scaligero che precedette di poco i cambiamenti viennesi (aprile 1843). Ad un debutto operistico al DO 2024, corrisponde un debutto direttoriale: quello del trentaquattrenne Iván López-Reynoso. L'Orchestra Donizetti Opera lo segue attentamente, almeno alla terza e ultima recita di sabato 30 novembre 2024, sia nei fascinosi languori intimistici, come in È finita, Don Pasquale, sia nei frequenti ritmi di valzer, sospinti qui con mano ferma e sicura ma leggera, sia nelle frenesie cui talvolta si abbandona, talvolta soverchiando le voci; dettagli, ad ogni modo: ché la concertazione e il fraseggio strumentale convincono, facendo promuovere a pieni voti la bacchetta del giovane messicano.

Così come convince il cast, a cominciare dal mattatore della serata, un Don Pasquale che, con Roberto De Candia, restituisce tutta la sua verve, la sua ironia, la sua ilarità e la sua malinconia. Non si tratta solo di una recitazione paradigmatica nel rendere, di concerto con la visione registica di cui si dirà, un Don Pasquale un po' smargiasso, prepotente, abituato a farsi servire ma non a tirarsi a lucido, e che quando gli capita di doverlo fare, per far colpo sulla sposina, lo fa pacchianamente, quasi zoppicando nelle scarpe nuove lucide a paillettes. Non è solo la mimica altamente espressiva e la padronanza dello spazio scenico. In questa prova De Candia unisce le qualità del buffo parlante rossiniano, che nel sillabato di Vedrai se giovino tocca ammirevoli vertici di velocità, con la declamazione chiara e precisa del testo, che viene scavato e modellato grazie a mezzi vocali solidi e tecnicamente ineccepibili.

D'altro canto, che fosse una garanzia lo si sapeva già. Come lo si sapeva di Javier Camarena, qui chiamato a impersonare Ernesto. E sebbene il suo strumento sia in via di guarigione, dopo un malanno stagionale, l'uso attento che ne fa nel rispetto e nella consapevolezza delle sue risorse, nelle finezze espressive, nelle delicatezze, nel portamento e nel fraseggio che esibisce, dimostra sicurezza, tecnica e mestiere di gran pregio, doti che lo confermano uno dei maggiori belcantisti degli ultimi tempi (è ancora fresco il ricordo della sfolgorante Favorite di due anni fa) e che lo portano qui, assieme a innegabile immedesimazione nel ruolo, ad una resa a tutto tondo di un Ernesto accorato, vivace, intraprendente e umano, rappresentato dapprima come un “Willy principe di Bel Air” mantenuto dallo zio, poi come un giovane di buon cuore con sentimenti di cui non si vergogna.

Questa dell'umanità è una caratteristica da analizzare, nel Don Pasquale. Ben si sa come non sia soltanto una commedia buffa, e che il lato buffo dialoghi malinconicamente con quello più metateatrale – ma Donizetti ce lo fa capire in molti altri casi, che il suo non è mai un teatro monoespressivo: pensiamo all'Elisir, alla Fille, al Furioso. Lo scrimine è sottile, ed è facile farsi conquistare dall'uno o dall'altro aspetto, dal comico come dal patetico: e sta in questo equilibrio la bravura sia di De Candia, sia di Camarena nel rendere bene e senza eccessi, al netto di qualche forzatura imposta dalla regia, entrambi i lati delle loro maschere, le qualità come i difetti. Di renderli insomma a tutto tondo, realistici, “veri”.

Tanta parte, certamente, la fa anche la frequentazione di lungo corso del palcoscenico. Ma questo Don Pasquale serve anche per mettere in luce le qualità di due giovani talenti della Bottega Donizetti: gli interpreti di Norina e Malatesta. A quest'ultimo dà corpo e voce Dario Sogos, versatile e credibile sulla scena, conscio in questo caso di dover interpretare un ruolo con un arco di trasformazione meno pronunciato e che si attesta perciò su una recitazione un po' farsesca ma mai macchiettistica o artefatta. Vocalmente disimpegna la parte con correttezza in grazia di una voce comunicativa e ben impostata, di buon volume e buon colore. Quanto alla Norina di Giulia Mazzola, si tratta della vera scoperta della recita. Con la sua vocalità rotonda, presente, cristallina e di adeguato squillo, con la sua espressività canora e gestuale, la sua spigliata capacità di muoversi sul palco e con una padronanza di tempi e spazi scenici, Mazzola dimostra che la compresenza di vecchie e nuove generazioni di artisti è possibile, se ad unirle è la maturità professionale: maturità che nel suo caso non potrà che crescere orientandosi verso ruoli più lirico-drammatici, che sembrano più affini alle sue corde espressive, dato anche il colore peculiare, in certi casi tendente allo scuro, le adeguate morbidezze il buon peso specifico del suo organo.

Il Notaio di Fulvio Valenti, che compita il contratto su una macchina per scrivere (ricorda un po' The Typewriter di Leroy Anderson), e il Coro dell'Accademia Teatro alla Scala, affidato alle cure di Salvo Sgrò, completano il cast. Complessivamente un cast che funziona, anzi, a funzionare è l'aspetto musicale in toto.

Dove le cose scricchiolano è dal punto di vista registico. L'allestimento di Amélie Niermeyer, assistita da Giulia Giammona, proviene dall'Opéra de Dijon e affida scene e costumi a Maria-Alice Bahra, le luci a Tobias Löffler e le coreografie a Dustin Klein. Tre gli atti dell'opera, due quelli percepiti, con un solo intervallo dopo il secondo: e due anche gli approcci registici: compatto e coerente per i primi due atti, dispersivo e inconcludente per il terzo. Non è necessario aver visto Parasite, film coreano del 2019 che Niermeyer cita espressamente nell'intervista, per capire che il motore dell'azione è Norina, qui raffigurata, se non «vedova», sicuramente «spiantata» come da libretto, che da ottima arrampicatrice sociale mira soltanto a migliorare la sua posizione e probabilmente ha con Enrico soltanto una liaison passeggera, in attesa di un altro pollo da spennare. Il look un po' sciatto, trecce rasta e gambe inguainate in collant, shorts e pantofoline col pelo, e il fatto che parcheggi la sua vecchia automobile, durante la Sinfonia, dietro la villa di Don Pasquale – montata su una struttura girevole al centro, con tanto di bancone bar, piscina, felci e piante di Monstera – e ne faccia il suo temporaneo bivacco, dormendoci dentro e usando la batteria per alimentare il bollitore del caffè (non stupiamoci poi che il motore fumi lungo la recita…), fanno pensare a un'esistenza senza radici, nomade, forse dedita al meretricio occasionale, perché no. Tanto più che a fine spettacolo si rimette in auto e accende il motore, volta a nuove conquiste come lo «yankee vagabondo». Una nuova Carmen, insomma, un «oiseau rebelle» come l'amore di cui si fa portavoce. D'altro canto, se il matrimonio per Don Pasquale è una questione di principio, quindi di interesse, una sfida con se stesso per dimostrare il suo vigore senile, oltre a una voglia di rivalsa sul nipote, perché non rispondere con la stessa moneta?

Si sarà capito che l'allestimento è moderno; ma poiché certe dinamiche c'erano al tempo e ci sono ora, questa parte regge. A questa modernità si conformano un Don Pasquale parvenu con poco gusto, anzi col gusto del pacchiano – che qui a differenza del Devereux è diegetico – con camicia leopardata, giacca bianca e le suddette scarpe lucide e brillantate, un Malatesta trafficone, con un improbabile camice bianco e stetoscopio al collo anche fuori dal suo studio medico, ed Ernesto, dapprima in accappatoio bianco ai bordi della piscina, poi con diversi altri costumi. La Modista diventa la cameriera in nero con grembiule bianco, il Maggiordomo un ragazzo tuttofare con cappellino a visiera, il Parrucchiere un giardiniere (Alessandra Bareggi, Hillel Pearlman, Vittorio Pissacroia, che danno una mano fattiva nei cambi scena). Il meglio è l'inizio del secondo atto, quando Donizetti fa rima con cassonetti (ma non in senso negativo!): quelli che Ernesto usa per buttarci dentro due trolley, salvo poi riprenderli durante Cercherò lontana terra, tra l'altro bulinata di mezze voci comme il faut, e regalare scarpe e completo a un senzatetto lì vicino, il bravissimo Massimo Longhi, che intona il solo di tromba (pensate quanto sarebbe stato d'effetto col sax!).

L'alzata del sipario dopo l'intervallo ribalta le cose, come si diceva. Si parte con un mimo in proscenio vestito da elefantino rosa (sì, esatto), ritto sulle zampe posteriori, che dopo averla scrutata in lungo e in largo, getta a terra e pesta una piantina della città. Il motivo è ignoto quanto quello che fa vestire i facchini da papere o galline, che inveiscono contro Don Pasquale («E pagaci ogni tanto!») in bergamasco. E l'unica spiegazione possibile al fatto che il coro in Che interminabile andirivieni! sia vestito secondo le più diverse fogge è che si tratti di un manipolo di conoscenze di Norina, a cui lei stessa ha aperto le porte di casa, anch'esse un po' dubbie: lo striscione con la scritta AMORE LIBERO proprio durante il coro ha tutta l'aria di un tentativo, goffo anzichenò, da parte della regista di ingraziarsi la non poca componente “fluida” del pubblico.

A fronte di tutto il salvabile, però, come l'originale dettaglio di far accompagnare Com'è gentil da un trio di messicani in sombrero, con due chitarre e tamburello basco a vista (Francesco Gaetano Bellarosa, Camilla Melis, Filippo Acquaviva), ciò che di fondo stride è voler superimporre una visione registica di tipo caratteriale. Con tutti i pregiudizi sulla donna di cui è imbevuta, con tutti gli anacronismi che si porta appresso (Candida Mantica, musicologa, fa notare che oggi definiremmo age e body shaming dare a Don Pasquale del grasso e del vecchio) e con buona pace di coloro che vorrebbero che non ci fossero in nome dell'attualizzazione ad ogni costo, il carattere dell'opera, a meno di non volerne rappresentare un'altra, rimane quello. Allargare perciò un altro striscione con L'AMORE NON HA ETÀ / L'AMORE NON HA CONFINI poco dopo il primo, con cuoricino colorato sul fondo mentre Norina snocciola la morale («ben è scemo di cervello / chi s'ammoglia in vecchia età»), a parte la ripetizione, è una presa di distanza bella e buona da parte della regista rispetto al testo e anche qui un modo per cattivarsi chi è più attento al politicamente che al filologicamente corretto. I registi si limitino a fare i registi. Non i paladini sotto mentite spoglie.

Christian Speranza

4/12/2024

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.