Péché de vieillesse à la Donizetti
Come tradizione ormai da alcuni anni, la stagione lirica del Carlo Felice di Genova si chiude coi solisti dell'Accademia di alto perfezionamento e inserimento professionale del Teatro stesso, diretta da Francesco Meli. Trampolino di lancio, occasione di crescita, saggio di fine anno: l'iniziativa di allestire un titolo dando loro modo di essere protagonisti può essere vista in tanti modi e ricorda un po' le operine che Johann Simon Mayr scriveva per dar modo ai suoi allievi di mettere in pratica ciò che avevano imparato. Si ha notizia che anche il più meritevole di loro, Gaetano Donizetti, abbia partecipato più di una volta, e con entusiasmo, a talune di esse.
Sarà forse per questo che la scelta del Don Pasquale sembra particolarmente azzeccata. Un'opera viva e frizzante, adatta a una compagnia giovane, e pazienza se gli esiti possono risultare talvolta altalenanti e interlocutori: avranno modo gli interpreti di migliorare col tempo. Intanto si misurano con uno degli ultimi lavori di un Donizetti maturo, alle vette della sua espressione artistica, basato in parte sul riciclo di brani precedenti (Quel fuoco insolito è ripescato da Ma puissance n'est pas mince dell'Ange de Nisida) e accolto fin dal suo debutto, alla Salle Ventadour per il Théâtre Italien di Parigi il 3 gennaio 1843, da un grande successo di pubblico e di critica, «da paragonarsi a quello ottenuto da Bellini per I puritani» (Roberto Monaco, Donizetti e la Francia, Musica Practica, 2023).
Banco di prova non facile, quindi, sfidante, soprattutto per la compagnia chiamata a presentarsi sul palcoscenico la sera della prima, 6 giugno 2023, presente in sala lo stesso Meli. Avrà forse pesato in parte il fatto di aver letto o sentito «allievi» prima dello spettacolo, innescando quei bias che viziano la mente e la critica del giudizio; ma, fatta la dovuta e doverosa premessa che se di allievi si tratta, da allievi li si valuta, c'est-à-dire come artisti sulla via dello studio e dell'affinazione dei loro mezzi vocali e attoriali, una disamina obiettiva non può esimersi dal rilevare alcune fragilità, a cominciare da Omar Cepparolli, un Don Pasquale di ampiezza e consistenza contenute e dal timbro chiaro che, ci si augura, possa scurirsi e mutare col mutar degli anni. La tecnica è presente e gli conferisce padronanza di espressione; e quando avrà superato la fase della tecnica come fine e non come mezzo, sbozzando meglio anche psicologicamente il personaggio, e quando diverrà più sciolto e scandito nei sillabati veloci di matrice rossiniana, qui talvolta un po' confusi – gli rema contro a onor del vero la grande velocità a cui vanno eseguiti –, potrà avere terreno d'elezione in quei ruoli di buffo “parlanti”. Ma la strada è quella giusta, come ha dimostrato il premio speciale Gioachino Rossini assegnatogli a gennaio nel Concorso Internazionale Claudio Desderi (peraltro, quest'ultimo, un Don Pasquale di riferimento). Più enigmatico il Dottor Malatesta di Nicola Zambon, con caratteristiche ibride di baritono e tenore: baritono chiaro, tenore scuro. Voce ad ogni modo timbrata e gradevole, ancora un po' anonima nel fraseggio e nella tornitura dei vocaboli, ma che risolve degnamente e con correttezza la parte, grazie anche a un uso intelligente degli spazi scenici, sintomo di uno spiccato senso teatrale. Promettente Antonio Mandrillo, buon strumento dal colore ambrato, rotondo, con qualche sporadica punta di sforzato negli acuti, ma che nel complesso sa come dipingere un Ernesto in cui prevale il lato malinconico, arrendevole, da Sogno soave e casto a Cercherò lontana terra, eseguite con grazia e sentimento e fraseggiate con perizia. Prova superata anche per la Norina di Maria Rita Combattelli, freschezza di timbro e propensione per le colorature, facili e vaporose, seppure a volte non squillanti; caratteristiche che, unite a una fibra di medio calibro ma che sa correre per la sala, ne fanno una buona candidata per ruoli di agilità leggera, nei quali si auspica di riascoltarla in futuro (un paio di mesi e ad agosto debutterà al Rossini Opera Festival di Pesaro): presti attenzione, tuttavia, a non impicciolire il volume e a non inasprire il timbro in tessitura acuta. Impressioni più che positive per il Notaro di Franco Rios Castro, che esibisce voce scura e robusta.
Appropriato il Coro stabile diretto da Claudio Marino Moretti, mentre a tratti poco affilata è parsa l'Orchestra, diretta da Francesco Ivan Ciampa, qua e là manchevole di sottigliezze timbriche – difetto che coinvolge anche passaggi più cameristici, come l'assolo di tromba del preludio all'atto secondo, pur intriso di opportuno patetismo, ma che si opacizza in una tenuta non omogenea del suo spleen – e incline talvolta a sonorità reboanti: ne viene a soffrire la concertazione complessiva, a privilegio dell'orchestra ma a scapito delle voci, in più casi coperte, complice anche un'acustica non del tutto favorevole. Il nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice, regia di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame, luci di Marco Alba e costumi di Elena Beccaro, ha sollevato dubbi e perplessità, quando non decisi dissensi, portando purtroppo alcuni spettatori a lasciare il teatro prima della fine dello spettacolo. Il J'accuse! più comprensibile non è stato tanto quello di traslare la vicenda in tempi moderni, cosa ormai piuttosto all'ordine del giorno, quanto quello di alterare la natura dei personaggi, pur conservandone il “tipo” e la funzione drammaturgica. Poco prima dell'inizio dell'ouverture, esce da un praticabile a destra del palcoscenico Don Pasquale, in veste da camera verde, e raggiunge un tavolino sul proscenio, a sipario chiuso, dove si mette a sorbire un brodo con fare mesto. All'alzarsi della tela siamo proiettati in una casa da gioco vagamente rétro, con slot machine in un angolo, sotto un balcone balaustrato, vicino ai monitor dove tre addetti alla sicurezza (gli originali maggiordomo e servitù di Don Pasaquale) controllano le riprese a circuito chiuso; in primo piano un tavolo da roulette sulla sinistra e uno di carte sulla destra, forse un black jack; sullo sfondo, in beige e marrone, campeggia la scritta «Casinò Corneto», a rimarcare che il casinò è proprio suo, di «Pasquale da Corneto», come da libretto. Un proprietario a quanto pare stanco, anziano (sopperisce alla mancanza di fiato con bombola d'ossigeno e mascherina), che incarna il vecchio avaro della commedia dell'arte (si diceva dei “tipi” drammaturgici), non più attratto dal denaro ma dal nuovo grillo di ammogliarsi: un péché de vieillesse che risvolta non in una trovata buffa, ma in un tentativo di sentirsi ancora giovane, con tutte le implicazioni psicanalitiche che ante litteram, e senza il bisogno di Freud, vengono dipinte in quest'opera. Non lo distraggono i gridolini di una giocatrice che ha appena scoperto di aver vinto (distraggono però il pubblico nell'ascolto dell'ouverture), né lo turba la pistola sfoderata da un altro, forse un baro: si apprende così che il posto non è proprio ben frequentato. Lo stesso Ernesto entra col grembiule da lavapiatti, sottopagato dallo zio, chissà. Che non sia un posto tanto rispettabile è confermato dalla seconda scena, dove ragazze dalle movenze feline appaiono dentro tre cabine da peep show illuminate al tintinnio di una moneta. Sulla destra il camerino, spoglio e squallido, dove Malatesta, in completo vinaccia brillante, adatto al contesto – e contrapposto al più castigato blu scuro che indossa in presenza di Don Pasquale – architetta con Norina, una delle spogliarelliste (siccome incarna il “tipo” sveglio che gnaffe, a lei non la si fa, e che sa la virtù magica d'un guardo a tempo e loco, allora calchiamo la mano sul suo sex appeal) la burla ai danni di Don Pasquale. Col secondo atto i cambiamenti risentono del tocco femminile: il locale si chiama ora «Casinò Sofronia», con tappezzeria a palme azzurre e un font più morbido; i costumi diventano il trionfo di paillettes e lustrini, di balletti e coreografie, mentre Don Pasquale, smessa la veste da camera, indossa un completo bianco molto appariscente. Col terzo atto, la scena della serenata in giardino si tinge di naïveté con quella grande mezzaluna sospesa, sopra la quale siede una modella. I due bimbi che ogni tanto passeggiano per il palco, uno dei quali con un grembiule analogo a quello di Ernesto e che proprio a Ernesto porge un palloncino rosso, aggiungono un tocco di innocenza, così come la trovata, infantile ma efficace, di dotare Ernesto di un cartello con su scritto SCUSA esibito mentre canta: «Ben feci a lei / d'esprimere in un foglio i sensi miei».
Prima di liquidare l'allestimento come l'ennesima estroseria, giova ricordare quanto Luca Zoppelli riporta nel suo recente Donizetti (Il Saggiatore, 2022): Théophile Gautier e altri scrittori e critici presenti alla prima parigina insistono proprio sull'aspetto sgargiante dei costumi. «L'insolita attenzione riservata al parametro visivo dello spettacolo […] reagisce a una precisa strategia di Donizetti, che ha preteso di abbigliare il cast in abiti contemporanei [corsivi miei]. […] Nel primo atto Pasquale dev'essere in “veste da camera redingote piqué bianco” e in pantofole. Nel secondo, abbigliato […] “come un vecchio Lion moderno”» (pag.471), cioè come uno dei giovanotti in cerca di avventure galanti nella Parigi della Monarchia di luglio. E a ben vedere, questi criteri sono stati rispettati. Forse Bernard non è andato così lontano come si crederebbe.
Christian Speranza
20/6/2023
Le foto del servizio sono di Marcello Orselli.
Le foto del servizio sono di Marcello Orselli |