L'oscura perversione di Salome
Stagliate contro un fondale nero, come in una tela caravaggesca, illuminate da singoli fasci di luce, le figure assumono un rilievo inusitato; è questa la cifra scelta da Barrie Kosky per la Salome che Richard Strauss trasse da Oscar Wilde, totalmente scevra di qualsiasi opulento esotismo e più vicina all'eleganza estetizzante in bianco e nero di Aubrey Beardsley. Un allestimento dell'Oper Frankfurt ora ripreso al Costanzi. L'oscurità imperante addita l'erotismo necrofilo, gli abissi plumbei della cisterna nella quale è rinchiuso il Battista, le perigliose vertigini della coscienza. Il decorativismo estetizzante, le materie e i tessuti preziosi, vengono spazzati via per attingere all'essenza del dramma. Kosky opera per sottrazione in maniera a volte fin troppo radicale, come quando eclissa totalmente il suicidio di Narraboth, sconvolto dalla crudeltà della principessa; la violenza dell'atto si svela solo in seguito, quando Erode rischia di scivolare sul sangue sparso sul pavimento. Lo spettacolo è nel complesso potente, terrifico nella sua essenzialità. Il sipario si apre sulla figura di Salome in abito bianco, un enorme copricapo piumato sulla testa che richiama gli anni Venti del Novecento, mentre disturbanti rumori saturano la sala. Un'aggiunta che, a nostro avviso, sciupa un poco l'effetto della figurazione iniziale dei legni, che è essa stessa la vera apertura di sipario, la cui efficacia è direttamente proporzionale all'abisso di silenzio dal quale emerge. La gestualità appare molto studiata, sempre in sintonia con la musica con due sole eccezioni: i saltelli che Salome compie all'inizio, spalle al pubblico, fin troppo adolescenziali, e la caricaturale stretta di mano con il Battista quando questi viene fatto uscire dalla cisterna. Il duetto fra la Principessa e Jochanaan polarizza i due opposti della lussuria e della compassione. Il Profeta, a un certo punto, assume un atteggiamento quasi paterno nei confronti della fanciulla, salvo poi respingerla e maledirla per la sua insana passione. In quest'ottica minimale la celebre Danza dei sette veli, solitamente ardua da risolvere sia per il regista quanto per l'interprete, viene tradotta in una sorta di rituale solipsistico. Salome, abbigliata in un vestito nero, seduta a gambe divaricate come una bambola disarticolata, estrae dal proprio sesso una treccia infinita di capelli. Una scena che può ricordare l'inizio del film di Kornél Mundruczó Quel giorno tu sarai dove, all'interno di una camera a gas di un campo di concentramento appena liberato, alcuni soldati estraggono dalle pareti e dal pavimento ciocche infinite di capelli, simbolo delle innumerevoli morti avvenute in quel luogo terrificante. Una pellicola del 2021, mentre lo spettacolo di Kosky è del 2020. Al di là delle considerazioni cronologiche e delle possibili influenze reciproche, appare interessante sottolineare tale inusitata convergenza estetica.
Spettacolo di grande impatto emotivo, dicevamo. Quando Salome attende la decapitazione vediamo solo il suo volto illuminato, mentre un gancio da macellaio scende a poco a poco sulla scena a raccogliere la testa spiccata dal collo. Il rosso del sangue è fra le poche notazioni coloristiche in uno allestimento sostanzialmente monocromo, nel quale protagonista è la luce, opera sapiente di Joachim Klein. Si pensi ai gesti isterici della mano di Erode, inquadrata in dettaglio dopo che questi ha malvolentieri dato l'ordine di decapitare il Battista. Nel finale Salome quasi indossa il capo mozzato di Jochanaan; la sua morte, frutto dell'orrore intollerabile, è stata decretata ed è inevitabile. Marc Albrecht non sceglie una lettura di taglio espressionista, come la messa in scena avrebbe potuto suggerire, ma dirige con dovizia di colori, senza perdere mai di vista i valori del canto. Risolve ad esempio la scena dei giudei, dove Strauss si spinge avanti dal punto di vista armonico, con ammirevole chiarezza. La sua interpretazione, coadiuvata da un'orchestra in ottima forma, colpisce per evidenza drammatica e ritmo teatrale.
Riguardo il cast, Lise Lindstrom è una Salome carismatica, di notevole presenza scenica e dalle ottime doti attoriali. Il fraseggio variegato e la vocalità solida le permettono di rendere credibile una personalità estrema ed inquietante. Nicholas Brownlee è uno Jochanaan religiosamente esaltato ma anche colmo di umanità. Il timbro è più chiaro del consueto, ma il canto è sempre sostenuto e ben controllato. Interpretativamente centrato l'Erode di John Daszak, preda di isterismi e paure, anche se vocalmente non esente da intonazioni incerte e fissità al limite del grido. Gli sta accanto la convincente Erodiade della veterana Kataryna Dalaiman. Joel Prieto è un Narraboth irretito da un amore impossibile, disperato nella sua totale sottomissione ai voleri della Principessa. Brava infine Karina Kherunts nel ruolo del Paggio. Uno spettacolo dal quale non si esce indifferenti. Se Strauss ha saputo tradurre in musica l'erotismo morboso e decadente di Wilde, Kosky ha concepito un allestimento in grado di distillare a una a una le gocce di tenebra che grondano copiose dalla partitura.
Riccardo Cenci
14/3/2024
Le foto del servizio sono di Fabrizio Sansoni-Teatro dell'Opera di Roma.
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