Tannhäuser, vita spericolata
Il nuovo allestimento di Tannhäuser, in scena al Teatro Valli di Reggio Emilia il 20 novembre, si rivela una coraggiosa sfida alla monumentalità wagneriana sin dall'ouverture. Il primo difficile compito della regia è infatti riuscire a sostenere quindici minuti di musica a sipario aperto, svelando immediatamente l'intenzione di proporre una messinscena dai toni farseschi ed esagerati. Il Venusberg è un motel, Venere è una maîtresse, Tannhäuser uno sciatto animale da bar di provincia; fanno da cornice un pugno di satiri e baccanti: parrucche, tacchi, pellicce sintetiche e atteggiamenti stereotipati, all'insegna di una fluidità di genere ridondante e inflazionata. La fatica sta quindi nel gestire la lunga introduzione utilizzando una scenografia che si presenta come una sorta di sezione longitudinale ma in cui gli spazi risultano piuttosto risicati e che costringe Venere e compagnia a movimenti innaturali, forzati e ripetitivi. Di sicuro non sono di aiuto i led rossi alla base del praticabile, sparati dritti nella retina della platea, oltre ad un infelice riflesso di un proiettore che colpisce uno specchio di scena e ci acceca per buona parte del primo atto.
L'Orchestra Toscanini, diretta da Marcus Bosch, è un motore che ha bisogno del suo tempo per sgranchirsi e funzionare a pieno regime, riuscendo ad uscire dal bozzolo solo a metà dell'atto, quando le piccole imperfezioni di fiati e percussioni trovano finalmente il giusto equilibrio nei concertati.
In questa compagine fluorescente e un po' scoordinata, si inseriscono invece in maniera composta le voci di Heike Wessels, Venere, mezzosoprano dai colori molto accesi e di buona espressività, e quella di Corby Welch, Tannhäuser, tenore di ottima tecnica, ma con una vocalità non sempre piena negli acuti, a causa di qualche imperfezione nelle note di passaggio. La prima bella sorpresa, nel cantato, è Julia Duscher, il giovane pastore, che nella pur breve prestazione incanta il teatro con la sua dolcezza. La seconda, il coro, qui proposto come una fila di avventori di un supermercato -immediato il riferimento all'iperrealismo di Duane Hanson- che lentamente, alla spicciolata, si forma nel proscenio e dà un'ottima prova di compostezza e fluidità musicale.
Le parti migliori della sezione vocale le abbiamo però nei concertati, davvero efficaci, soprattutto grazie alle voci maschili, che andiamo ad elencare: Tijl Faveyts è Hermann, bravo nelle parti solistiche e fondamentale nell'insieme; Birger Radde, Wolfram, ruba spesso la scena al tenore grazie alla grande espressività e alla precisione vocale; Martin Mairinger,, Young Kwon, Christian Sturm, Gerrit Illenberger, rispettivamente Walther, Biterolf, Heinrich Der Schreiber e Reinmar, completano in maniera egregia il gruppo di cantori, creando un piacevole impasto sonoro che riempie la sala e diverte il pubblico. Leah Gordon, nei panni di Elisabeth, offre una generosa e ottima prestazione, anche grazie alla buona trovata dell'ingresso dal fondo sala, durante il quale abbiamo modo di apprezzare a pieno le doti tecniche del soprano.
Nel secondo atto il regista Georg Schmiedleitner svela definitivamente le proprie intenzioni nella gara tra cantori, dove un Tannhäuser vestito d'oro - ma sempre in tuta, aperta a mostrare il torso - appare forse eccessivo; va bene la reinterpretazione sopra le righe, divertente ad esempio quando i cantanti accennano qualche passo di danza sulle arie più note, ma il continuo rimando alla sciatteria e alla volgarità, alla lunga stanca. Dà qui invece il meglio di sè il gruppo di voci maschili insieme al soprano, nei bellissimi concertati cui accennavamo all'inizio.
Anche la scenografia, che di sicuro non è il motivo per cui verrà ricordato questo Tannhäuser, va via via perdendo senso e nel terzo atto appare svuotata di ogni significato, oltre che poco funzionale alle esigenze della messa in scena: persistono le scritte al neon, ora spente, che nel primo atto potevano avere un senso ma che in questa situazione contribuiscono ad una confusione compositiva d'insieme; si insiste nell'uso dei led rivolti al pubblico, anche qui in maniera abbastanza casuale e piuttosto fastidiosa. Le lunghe parti orchestrali, certamente difficili da risolvere in scena, non trovano una corrispondenza nei movimenti degli attori, troppo inconsistenti, meccanici e immotivati.
A risollevare le sorti dell'opera, che pur nella sua sconnessione mai annoia, arriva il coro: azzeccatissima la scelta di utilizzare la sala nelle scene finali di insieme, con i pellegrini che pian piano si sistemano lungo il perimetro della platea e sollevano una meravigliosa onda sonora, sulla superba melodia del finale.
In ultima analisi, la coproduzione di Opernfestspiele Heidenheim OH!, Fondazione Teatro Comunale di Modena e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia convince soprattutto nella direzione dei cantanti, i quali offrono un ottimo esempio di scuola tedesca di gusto liederistico, e sull'uso del coro, corposo, duttile ed equilibrato nelle complesse, ed efficaci, soluzioni registiche. Di scene, luci e costumi ci eravamo riproposti di parlarne in maniera più approfondita qui, nel finale. Ma a ben vedere ci pare, adesso, di averne parlato anche troppo.
Giovanni Giacomelli
22/11/2022
Le foto del servizio sono di Oliver Vogel.